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buon pomeriggio!


Mi ha colpito molto un aforisma dell’autore del romanzo Peter Pan, James Matthew Barrie, romanzo da cui poi Walt Disney creò il famoso cartone animato: la vita di ogni uomo è un diario in cui egli intende scrivere una storia, ma in realtà ne scrive un’altra, e la sua ora più umile è quando mette a confronto il volume (ciò che ha scritto) così com’è, con ciò che ha promesso di fare.

Tutti noi ci troviamo, prima o poi, a fare i conti con ciò che avremmo voluto fare e ciò che siamo stati poi in grado  di realizzare.

A tal proposito, sai che cosa sognavo di fare da bambino?

Il mio sogno era quello di diventare un pilota di aerei.

Aerei civili, o anche pilota dell’aeronautica militare.

Gli aerei mi hanno sempre affascinato, e tutt’ora mi affascinano molto … ma presto ho scoperto di essere miope (ho preso da mamma sotto questo aspetto), e come saprai la miopia non consente di diventare un pilota.

L’ambito bancario e finanziario però, fin dalle scuole superiori, mi è sempre piaciuto molto.

La mia ambizione, una volta diplomato, era quindi quella di entrare in banca.

Ancora di più, quest’ambito, mi piace da più di 6 anni a questa parte, quando ho avuto il coraggio di licenziarmi dalla banca per cui lavoravo per rimboccarmi le maniche, crescere ed entrare così nella libera professione della consulenza finanziaria.

E tu, che cosa volevi fare della tua vita quand’eri bambino?

Buona lettura!



  1. UN INVESTITORE FINANZIARIO CINESE PER BRAND STORICI DEL MADE IN ITALY

Il gruppo Ludovico Martelli, azienda toscana leader nel mercato italiano della rasatura (e non solo), in forte espansione a livello internazionale e controllato dall’omonima famiglia, ha recentemente ceduto il 30% delle sue quote (valore di circa 50 milioni di € in aumento di capitale) in un’operazione di finanza straordinaria al Gruppo di private equity di Hong Kong Nuo Capital.

Fondata nel 1908 a Firenze da Ludovico Martelli, il gruppo da tre generazioni è il punto di riferimento nel mondo della rasatura grazie al brand PRORASO.

Oltre alla schiuma da barba made in Italy usata dai barbieri di tutto il mondo, anche il “dentifricio di lusso” MARVIS è un prodotto della Martelli, presente poi sul mercato della cura del corpo con le creme KALODERMA, la linea di shampoo SCHULTZ, le creme per depilazione OXY, saponi e bagnoschiuma SAPONE DEL MUGELLO, e l’ultimo arrivato VALOBRA, brand di saponi acquisito nel 2018.

Il Gruppo Martelli commercializza i propri prodotti in oltre 60 paesi, generando il 30% dei ricavi dalle vendite all’estero grazie soprattutto al forte posizionamento di Marvis in Cina, oltre alla continua crescita di Proraso in Nord America, Germania, Francia e Spagna.

Negli ultimi anni la Ludovico Martelli è cresciuta in modo significativo, raggiungendo i 60 milioni di fatturato nel 2018, con un ebitda margin superiore al 20%.

L’ingresso di Nuo Capital (holding con sede a Milano, già investitore in altre aziende italiane) permetterà all’azienda di intraprendere un percorso di crescita accelerata, grazie all’espansione all’estero dei suoi brand principali.

Proprio a crescere in maniera importante servono, molto spesso, le operazioni di finanza straordinaria, alcune delle quali, in questi anni, mi è capitato di incontrare e supportare nel percorso della mia carriera professionale.


  1. L’84% IN 2

A che cosa mi sto riferendo?

Agli utili netti nei primi 6 mesi dell’anno delle 8 più importanti banche italiane quotate in Borsa.

Gli utili ammontano in totale a 6,549 miliardi di euro, ma di questi, Intesa e Unicredit insieme ne hanno prodotti 5,507 miliardi (l’84%).

Non bastano, in sostanza, gli utili per dire che un sistema è sano.

La sproporzione è evidente ed è in parte determinata dalle dimensioni aziendali.

Più in basso si scende, più problemi si trovano.

E’ opportuno pertanto non cullarsi nell’idea che, per il sistema bancario italiano, tutto il peggio sia alle spalle.

Anche le cronache raccontano che non è così.

Il fatto recente più evidente vede protagonista la Popolare di Sondrio.

Dopo anni di pressanti inviti a unire le forze e a fondere istituti, la Banca Centrale Europea ha sonoramente bocciato il progetto di fusione tra PopSondrio e Cassa di Risparmio di Cento.

Prima di fare shopping, ha detto in sostanza la BCE, la Sondrio dovrà fare pulizia del suo bilancio appesantito oggi da 3,93 miliardi di crediti deteriorati (prestiti, mutui e finanziamenti incagliati).

Un brusco atterraggio per la banca lombarda.

La bocciatura del progetto Sondrio non è l’unico elemento di spicco che evidenzia la debolezza del sistema creditizio italiano.

La conclusione dell’operazione di salvataggio del Monte dei Paschi di Siena, con una decina di miliardi di NPL da collocare e la necessaria uscita dello Stato dal capitale dell’istituto (oggi è al 68%), è ancora lontana.

Mentre la presenza dello Stato è sempre più vicina, non solo a Siena, ma anche a Genova.

Qui Carige è un istituto sotto tutela, il cui futuro dipende dall’agire di tre commissari e dai denari che Cassa Centrale Banca (holding formata dalle banche di credito cooperativo) deciderà di immettere nell’esangue istituto ligure per rilevare le quote di cui oggi è titolare indirettamente il Fondo interbancario di tutela dei depositi, ovvero la maggioranza delle altre banche italiane.

Sul sottile equilibrio tra mano pubblica e mano privata si giocano diverse altre partite.

La Popolare di Bari rischia di emulare la non gloriosa fine di Popolare di Vicenza e Veneto Banca.

L’istituto ha chiuso il 2018 con una perdita di 420 milioni.

Nei primi 6 mesi di quest’anno ne ha persi altri 73 e presumibilmente chiuderà in rosso anche il 2019.

Qui, decine di migliaia di risparmiatori hanno investito nel titolo azionario (illiquido e non quotato in Borsa) e reclamano i loro denari congelati ormai da diverso tempo.

L’opera di salvataggio sembra delinearsi coinvolgendo diverse banche del Mezzogiorno.

Ne uscirebbe un ampio istituto del Sud che per camminare avrebbe però bisogno, per lo meno, di un miliardo di euro, visto che la Popolare di Bari ha un patrimonio primario al di sotto dei limiti di vigilanza.

Ma chi dovrebbe metter mano al portafoglio?

Probabilmente, anche qui, lo Stato.

In un emendamento al decreto crescita vi erano 380 milioni di euro da destinare a questo “progetto”.

Oggi appaiono insufficienti, e ingannevole appare anche il titolo “decreto crescita”, visto che si tratta, più che altro, di un salvataggio.

In sostanza, le banche italiane dopo decenni di malagestione dovrebbero, prima di tutto, aiutarsi da sole nella pulizia delle loro varie inefficienze strutturali.

Carriere ventennali ai vertici degli istituti di credito, governance traballanti, NPL e conti in rosso non aiutano di certo.


  1. LA CORSA ALLA CINA VINTA DALLA PATTUGLIA NORDISTA

Recentemente ho letto un interessante articolo che riportava il podio (e non solo) dell’export italiano 2018 verso la Cina.

Le esportazioni tricolori verso il gigante asiatico sono state oltre 13 miliardi nel 2018, e la stragrande maggioranza è prodotta nelle regioni del Nord Italia.

La Lombardia è infatti la principale protagonista con 4,4 miliardi di euro che valgono 1/3 del valore totale.

A buona distanza Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto, racchiuse in una forbice compresa tra i 1.974 milioni e i 1.689 del nostro Veneto.

Le prime 5 regioni (Toscana compresa a quota 972 milioni) valgono da sole l’82% delle esportazioni totali verso la Cina.

Analizzando questa geografia dell’export a livello provinciale, Milano svetta con i suoi 2,2 miliardi, seguita da Torino (986 milioni) e, nel podio, da Vicenza, da sempre una delle provincie regine dell’export made in Italy (557 milioni).

Seguono Bologna, Brescia, Bergamo, Varese, Treviso e Firenze.

Roma, ad esempio, prima del Centro-Sud, conta “solamente” 191 milioni di export diretto in Cina (18° posizione), seguita poi da Bari e Napoli con 167 e 143 milioni.

La struttura generale di questo export vede i macchinari incidere per un terzo del totale, seguiti da abbigliamento e prodotti tessili (17,5%), prodotti chimici e farmaceutici (14%), alimentari e bevande ma ancora con un ruolo marginale (1,9 e 1,1%).


  1. QUANDO I BENI RIFUGIO, UN RIFUGIO NON LO SONO PIU’

Li chiamano beni rifugio, ma il nome, che trasmette all’investitore medio un senso di pace e tranquillità, può ingannare.

Numeri alla mano oggi ci si può infatti scottare anche con Bund (il titolo di Stato tedesco), Treasury (il titolo rappresentativo del debito pubblico americano), Yen (valuta del Giappone), Franco svizzero, Dollaro e Oro, ovvero con quegli asset finanziari storicamente annoverati nella categoria dei porti sicuri.

Proprio come è accaduto negli ultimi due mesi quando questi strumenti si sono mediamente svalutati del 3-4%, dimostrando peraltro una volatilità elevata, in altri tempi accostabile soltanto a classi considerate più rischiose come le azioni.

E’ infatti vero che quando le cose si mettono male e la paura la fa da padrona tra gli operatori finanziari, i beni rifugio tendono a salire, forti della crescente domanda degli investitori.

Il punto, spesso sottovalutato, è che però nei momenti in cui le cose vanno bene questi asset definiti sicuri rivelano una forte fragilità di fondo: piuttosto che starsene tranquilli, perdono terreno trasformandosi così in una fonte di perdita e perdendo il loro standing di investimenti che tutelano i capitali.

Un esempio eclatante di tutto questo arriva dalla cronistoria degli ultimi mesi.

A fine Agosto i mercati scontavano una serie di scenari sfavorevoli (escalation della guerra dei dazi, ipotesi di hard Brexit, rallentamento economico globale), non a caso tra il 27 e il 28 Agosto i beni rifugio citati toccarono i loro picchi.

Il rendimento del Bund a 10 anni è arrivato sino a -0,71%, il livello più basso di tutti i tempi.

Allo stesso tempo il rendimento dei Treasury USA a 10 anni scivolava per la prima volta sotto l’1,5%, mentre il dollaro si rafforzava su tutte le principali valute.

Forti acquisti anche sullo Yen, bene rifugio valutario per eccellenza.

E poi anche l’oro, considerato il bene rifugio di ultima istanza, ha toccato nuovi massimi di periodo in area 1.550 dollari, nonostante la concomitante forza del dollaro stesso.

Bene, chi avesse puntato su questi beni appena dieci settimane fa, oggi si troverebbe il portafoglio tutt’altro che al riparo.

Il Bund è arrivato infatti a perdere fino al 4%.

Stesso discorso per il Treasury, il cui tasso sul decennale è tornato all’1,71% con il prezzo che ha così perso il 3,5%.

Movimento analogo per l’oro che a fine ottobre è sceso sotto i 1.500 dollari dimostrando una volatilità di breve periodo superiore persino a quella delle borse.

Anche lo Yen ha perso terreno, quasi il 3% nei confronti del dollaro che a sua volta ha perso il 2% sulle altre principali divise.

Anche il franco svizzero si è indebolito verso euro e dollaro, ma c’è chi da tempo non considera più la divisa elvetica un bene rifugio considerata la sua recente volatilità.

Basti pensare infatti che tra il 2015 e il 2017 è arrivata a perdere il 20% sull’euro per recuperare poi parzialmente 10 punti.

Con la nuova era dei tassi bassi, alimentata dal botta e risposta di politiche accomodanti delle banche centrali globali con evidenti impatti su bond e valute, persino i beni rifugio sono diventati più instabili.

Questi strumenti oggi proteggono sì dalle tempeste, ma è una protezione che rischia di costare cara quando, e per fortuna, la tempesta passa.


  1. I BOND VERDI A QUOTA 1 TRILIONE

Avevo già parlato dei Green Bond nel corso della mia 7 Notizie in 7 Minuti del 23.09.2019.

Climate Bonds Initiative, la bibbia del settore, ha certificato il raggiungimento alcune settimane fa dei mille miliardi di dollari (1 trilione) emessi.

Un obiettivo fissato dal Trattato di Parigi del 2015 per il contenimento del riscaldamento globale.

Il target è stato raggiunto in anticipo, era infatti previsto per il 2020.

Secondo l’accordo da quest’anno in poi le obbligazioni verdi dovranno viaggiare al ritmo di 1 trilione di dollari l’anno.

Questo trilione dev’essere la combinazione di diverse obbligazioni tematiche, come i green bond appunto, che sono poi la maggior parte, i social bond, le obbligazioni sostenibili e le obbligazioni Esg-linked.

Non tutto di questo trilione avrà pertanto come obiettivo quello di combattere il cambiamento climatico.

I social bond, ad esempio, finanziano solo progetti che sostengono iniziative sociali come l’uguaglianza di genere o l’edilizia sociale.

Al di là dei green bond di cui pertanto sentiremo sempre più parlare, gli investimenti responsabili stanno conquistando in modo trasversale tutti i grandi investitori e, in particolare, quelli che nel mondo devono gestire (e poi versare) i soldi delle pensioni private.

Sempre più investitori istituzionali infatti valutano oggi importante per la propria organizzazione l’investimento responsabile, evidenziando un cambio importante di paradigma.

A far cambiare il loro umore, non soltanto una questione di sensibilità o di tendenza di mercato, ma anche il regolatore e le nuove normative in materia climate change.

Anche il nostro paese, purtroppo più lentamente di altri, si sta allineando a questi cambiamenti sempre più richiesti in ottica futura.

 

  1. TRENT’ANNI DOPO

A 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino (1989-2019) si stima che il conto totale della riunificazione tedesca sia prossimo alla cifra da capogiro di 2 mila miliardi di euro.

Alcuni sostengono però che questo numero sia gonfiato a dismisura contendendo anche le spese delle pensioni e dei sussidi di disoccupazione per i cittadini dei cinque Lander ex-Ddr.

La riunificazione delle due Germanie è pertanto costata carissima, ma resta ad oggi incompiuta perché al flusso di denaro in entrata nella Germania dell’Est va contrapposto il flusso in uscita di cittadini e grandi aziende da Est verso Ovest.

Dalla caduta del Muro infatti, milioni di tedeschi si sono trasferiti dalle regioni orientali a quelle occidentali provocando una vera e propria crisi demografica (3,68 milioni in fuga tra il 2001 e il 2007).

Ma anche tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni prima del Muro questo esodo ha superato il milione di persone.

La popolazione delle regioni ex-Ddr è scesa tanto da essere tornata al livello del 1905.

Fino a 70 anni fa la Germania si è sviluppata, sotto il profilo demografico, in maniera uniforme in tutto il territorio.

Anche in questo nuovo trend resta divisa.

Oggi i Lander orientali sono i meno popolati e le loro grandi città hanno stentato a svilupparsi come quelle dell’Ovest.

Città come Dresda e Lipsia, se la Sassonia si fosse sviluppata dopo la riunificazione ai tassi dell’Ovest, sarebbero cresciute il doppio, mentre invece sono rimaste “piccole” o sottosviluppate contando adesso circa 550.000 abitanti.

La stessa Sassonia nel 2017 aveva 4 milioni di abitanti contro, ad esempio, i 18 milioni della Renania Settentrionale-Vestfalia, la Sassonia Anhalt 2,2 milioni contro i 13 milioni della Baviera, la Turingia con poco più di 2 milioni contro l’Assia che ne ha poco più di 6.

La demografia ha dunque contribuito pesantemente a far sì che il Pil, il Pil pro-capite, la produttività, i salari nell’ex-Ddr a trent’anni dalla caduta del Muro non siano ancora equiparabili a quelli dell’ex Germania Ovest, anche se le regioni ex-Est hanno comunque registrato forti tassi di crescita e occupazione nel corso della riunificazione.

In una recente intervista, Angela Merkel ha ammesso che ci vorranno forse altri 50 anni o più per raggiungere la parità tra Germania Est e Germania Ovest.

Si pensava ad una vicinanza più veloce e rapida.

Anche le grandi aziende sono in passato fuggite ad Ovest per scappare dalla soppressione sovietica e per trarre così vantaggio dall’occupazione filo capitalista degli alleati.

Il caso più simbolico è stato quello di Audi.

Nel Giugno 1932 due storiche aziende automobilistiche si fusero nella Auto Union AG con sede a Chemnitz, in Sassonia, formando il secondo gruppo del settore in Germania.

I sovietici lo smantellarono e Audi risorse a Ingolstadt in Baviera, tra Monaco e Norimberga, dove fiorì sotto l’occupazione americana che trasformò la regione da agricola a polmone industriale.

Come Audi ve ne furono altre: Wella, gruppo industriale specializzato in prodotti cosmetici fondato in Rothenkirchen Sassonia, e Osram specializzata nell’elettronica e nell’illuminotecnica, nata a Berlino e ora con sede centrale a Monaco.

Oggi le regioni ex Est hanno un tessuto industriale dominato da micro, piccole e medie imprese che stentano a internazionalizzarsi e ad affrontare la globalizzazione.

La forte presenza, salvo eccezioni, di Pmi, mantiene la produttività e la media dei salari nell’Est a livelli più bassi rispetto all’Ovest.

La scarsa urbanizzazione e la permanenza di estese aree rurali è un altro fattore che contribuisce all’arretratezza economica dell’Est che avrebbe bisogno di importanti investimenti mirati nelle infrastrutture.

I flussi in uscita dall’Est prima del Muro e fino al suo crollo, sono poi continuati subito dopo la riunificazione ma anche all’inizio del 2000, con una fuga di cervelli stimata in centinaia di migliaia, prevalentemente giovani e donne, spinti dall’ambizione di trovare un futuro migliore ad Ovest.

Angela Merkel ha detto che il 9 Novembre 1989 vide la libertà come “una delle più grandi sorprese della mia vita”.

Oggi questa voglia di libertà resta nell’Est guardando ad Ovest, ma non è più una libertà di espressione e di movimento, è una libertà di scelta in termini di occupazione e qualità della vita.


  1. A COLAZIONE DA TIFFANY

E’ notizia di pochi giorni fa, il gruppo francese del lusso Lvmh, guidato da Bernard Arnaut e caratterizzato da ricavi superiori ai 50 miliardi di euro, ha lanciato la sua offerta per acquisire Tiffany, glorioso marchio americano della gioielleria carico di storia (e di un po’ di polvere), prima che diventi troppo cara.

L’offerta di Arnaut, 120 dollari ad azione, ammonta in totale a 14,5 miliardi di dollari cash (13 miliardi di euro).

Oggi il titolo Tiffany, ovviamente cresciuto tantissimo (+39% circa) nelle ultime settimane non appena si è sparsa questa notizia tra gli addetti ai lavori, prezza a 125 dollari.

I ricavi di Tiffany (circa 4 miliardi di fatturato annuo) sono stati rilanciati in maniera importante negli ultimi due anni dal lavoro del CEO italiano Alessandro Bogliolo, che ne ha svecchiato l’immagine riposizionandone anelli e diamanti verso l’alto.

Lvmh, che nel 2011 comprò Bulgari, da sempre fondata sulla capacità di acquisire marchi di grande prestigio magari un po’ stanchi ma con ottime possibilità di rilancio, si è così lanciata in quella che potrebbe diventare la sua più costosa acquisizione della storia, tre volte più grande del record precedente, considerato che per acquistare proprio Bulgari dovette sborsare 4,3 miliardi di euro.

Nonostante questo, l’offerta di 120 dollari ad azione, pari ad un 22% di premio rispetto al valore del titolo precedente l’annuncio, è giudicata piuttosto bassa un po’ per le prospettive incoraggianti della stessa Tiffany, e un po’ perché in passato Arnaut ha saputo mostrarsi più generoso visto che agli azionisti di Bulgari e di Loro Piana offrì un premio del 50%, e in occasione della recente acquisizione della catena di alberghi di lusso Belmond pagò il 40% in più del valore di Borsa.

Le trattative per Tiffany sono ancora in corso, e le manovre potrebbero essere solo agli inizi considerando che l’offerta francese potrebbe essere il primo atto di un’asta con altri concorrenti.

Le ragioni per l’interesse di Lvmh per Tiffany sono molteplici.

L’ingresso del gruppo nel marchio reso immortale dal film con Audrey Hepburn raddoppierebbe infatti il peso della sua divisione “orologi e gioielleria” comprendente già marchi come Bulgari, Tag Heuer, Zenith, Fred, Hublot, Chaumet, e che per ora offre margini inferiori rispetto alla pelletteria di lusso di Louis Vuitton, alla moda, o agli champagne e ai liquori.

Poi occorre considerare la presenza del gruppo Lvmh nel mercato americano, visto che Bernard Arnaut è impegnato in un notevole sforzo diplomatico nei confronti del presidente Trump che minaccia di imporre dazi importanti ai vini pregiati e agli altri prodotti del lusso made in Europe.

A metà Ottobre Arnaut ha inaugurato, proprio con Trump e con la figlia Ivanka, un nuovo stabilimento Louis Vuitton in Texas.

Un investimento da 50 milioni di dollari che ha permesso di assumere subito 150 persone, fino ad arrivare a 1.000 dipendenti entro 5 anni.

Quanto più Lvmh si dimostra attiva nell’occupazione degli States, tanto più è probabile che le sue attività non verranno coinvolte nelle tensioni commerciali tra Washington e Bruxelles.

Inoltre, conquistare Tiffany consentirebbe a Lvmh di rivaleggiare nel settore della gioielleria con Richemont che detiene i marchi Cartier e Van Cleef, e a settembre ha comprato l’italiana Buccellati.

Tutti questi marchi vengono generalmente acquisiti dai grandi gruppi del lusso non per essere poi smantellati, ma per venire invece valorizzati, con importanti investimenti in fabbriche, aumento di capacità produttive, scuole di formazione, e con il rispetto anche della struttura famigliare (laddove presente) e la creazione di posti di lavoro.

E’ la stessa filosofia alla base dell’offerta per Tiffany.

Vedremo prossimamente se Kering e Richemont proveranno a sbarrare la strada a Lvmh, o lasceranno invece che Arnaut faccia un altro passo verso la prima posizione nella classifica degli uomini più ricchi al mondo (oggi è terzo dietro a Jeff Bezos e Bill Gates).


Concludo questa mia 7 Notizie in 7 Minuti richiamando una notizia della newsletter precedente, quella datata 5 Novembre.

Quel giorno vi ho parlato infatti della più grande IPO della storia, quella di Saudi Aramco.

Ebbene, il gigante saudita del petrolio verrà quotato in Borsa ad un prezzo nella parte più bassa della forchetta, per una valutazione complessiva dell’azienda tra i 1.600 e i 1.700 miliardi di dollari, portando così al governo una raccolta complessiva compresa tra i 24 e i 25,6 miliardi di dollari.

Verrà infatti venduto al momento solamente l’1,5% del capitale.

Questo capitale verrà poi indirizzato dal principe ereditario verso una maggiore diversificazione dell’economia del paese.


Ci sentiamo presto con interessanti novità.

Buona giornata e buona settimana!


Davide