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I piccoli risparmiatori, che nel nostro Paese rappresentano poi la maggioranza delle famiglie, vengono considerati dal sistema come coloro che dispongono di un patrimonio finanziario inferiore ai 200mila euro.

Risorse che spesso vengono lasciate sul conto corrente perché non ricevono un’ adeguata risposta in termini di strategie di investimento.

Le ragioni di questo vanno ricercate in prima battuta nella scarsa educazione finanziaria degli italiani e nella loro cattiva gestione dei risparmi: secondo un recente studio Consob il 28% delle famiglie preferisce il fai-da-te, correndo rischi elevati e rischiando così magari anche di incappare in casi simili a quello Bio-on (vedi alla notizia nr.3). 

Viste però le numerose incertezze sui mercati finanziari, cresce l’esigenza di sicurezza nelle scelte di investimento, proprio soprattutto per chi ha piccoli risparmi e non può permettersi rischi elevati.

Oltre a non disdegnare quindi il fai-da-te, molti italiani preferiscono anche un orizzonte di investimento di breve periodo (inferiore ai 3 anni), e solo poco più di un risparmiatore su dieci guarda veramente al lungo periodo come invece sarebbe il caso di fare.


Ogni risparmiatore, prima di investire, dovrebbe cercare di approfondire:

- il suo PROGETTO DI INVESTIMENTO

- il suo ORIZZONTE TEMPORALE;

- il LIVELLO DI RISCHIO ritenuto accettabile.


La strada da privilegiare è quella di rivolgersi a capaci e competenti intermediari finanziari.

Per i piccoli risparmiatori, lo percepisco quotidianamente, non è tuttavia facile trovare un’offerta adeguata da parte dell’industria del risparmio: più che ricevere un vero servizio di consulenza, ottengono infatti dagli intermediari una vendita di prodotti dai costi spesso elevati.

Chi non investe poi è anche meno finanziariamente educato di chi almeno ci prova e lo fa.

Per tutti, un serio esame di coscienza non farebbe sicuramente male.

Io ci sono, buona lettura!



  1. AZIONI AD ALTO DIVIDENDO: L’INVESTIMENTO AZIONARIO MENO RISCHIOSO

Mentre le obbligazioni distribuiscono ai sottoscrittori delle cedole periodiche, le azioni (non tutte ovviamente) distribuiscono agli azionisti parte degli utili generati dall’azienda sottoforma di dividendo.

Con gli attuali tassi di interesse a zero, e 16mila miliardi di obbligazioni con rendimento negativo, i dividendi azionari ingolosiscono sempre più gli investitori.

Il divario tra il rendimento degli investimenti nel capitale (azioni), e nel debito delle aziende (obbligazioni), non è mai stato così ampio prima.

Il rendimento medio da dividendi dell’Eurostoxx (indice rappresentativo i più importanti titoli azionari dell’Eurozona) è del 3,3%, mentre il Ftse Mib italiano è ancora più generoso e paga il 4,4%.

L’investimento in azioni è ovviamente del tutto differente da quello in obbligazioni.

Soprattutto non ha una scadenza, ed è passibile, almeno in teoria, di maggiori oscillazioni di valore, sebbene negli ultimi 10 anni anche il mondo obbligazionario abbia conosciuto violenti terremoti anche nei comparti “più riparati”, come ad esempio quello dei titoli di Stato.

Tanto per fare qualche esempio, guardando al mercato domestico l’azione Eni ha un dividend yield del 6% annuo, mentre un’obbligazione della stessa società con scadenza 2029 paga lo 0,6%.

Il rendimento dell’azione Intesa Sanpaolo è addirittura superiore all’8%, a fronte invece di un rendimento negativo dell’emissione obbligazionaria della stessa banca con scadenza 2026.

Le azioni ad alto dividendo appartengono per lo più ad aziende operanti in settori “maturi”, e sono ritenute titoli più sicuri (o con una minore rischiosità) degli altri titoli azionari in quanto, se tenute nel tempo, producendo importanti utili sono in grado di assorbire anche eventuali periodi di crisi e difficoltà. 

In cima alla lista delle preferenze, le società con i dividendi più generosi che, in un orizzonte di 12 mesi, escludendo le oscillazioni dei prezzi di Borsa, possono arrivare a sfiorare anche il 10%.

Pensa, un BTP a 10 anni rende oggi meno dell’1%.

Per chi vuole (come sarebbe opportuno fare) il massimo livello di diversificazione, esistono anche strumenti finanziari ad hoc, come fondi o ETF, che riuniscono l’aristocrazia del dividendo, facendo una selezione accurata dell’offerta sui mercati segmentata per le diverse aree geografiche.

L’Italia è storicamente la patria dei titoli ad alto rendimento, grazie alla presenza nel listino principale (il FTSE Mib appunto) di molte società value, a bassa crescita ma con stabili ed elevati flussi di cassa.

Ricordi? Ho parlato proprio dei titoli value nella newsletter di Lunedì 14 Ottobre.

Tra i top performer in Italia, oltre a Intesa Sanpaolo di cui ho già scritto sopra, anche Azimut, società per cui lavoro, con un dividendo stimato attorno al 7%, UnipolSai Assicurazioni (superiore al 6%) ed Eni stessa.

Se allarghiamo lo sguardo all’Europa , la scelta, sotto questo aspetto, potrebbe ricadere ad esempio su Enagas (operatore spagnolo nella realizzazione e gestione di infrastrutture nel campo del gas) con “promessa” di una cedola attorno al 7,5%.

Le società più note invece, come Allianz, Bayer, Erg e Deutsche Post, offrono dividendi nel range 4,6-4%.

Negli Stati Uniti invece, l’azienda che promette il più elevato dividendo (9% in dollari la prossima distribuzione) è oggi Tanger Factory Outlet, gruppo attivo nel settore immobiliare con focus in particolare nel campo dei centri commerciali di marca, società da oltre 1 miliardo di capitalizzazione.

Attenzione però!

Il dividendo non è tutto nell’acquisto di un titolo azionario, e, nel caso, meglio optare per quelle aziende in grado di distribuire dei dividendi sostenibili e in crescita nel tempo.


  1. GOOGLE RILEVA FITBIT E SFIDA APPLE

Per una mossa in attacco, ce n’è invece un’altra da affrontare cercando di non perdere posizioni.

Apple muove la sua pedina nel ribollente scacchiere dello streaming on demand con l’avvio di Apple TV+, ma, lato smartwatch, vede profilarsi una sfida sul mercato in quanto dovrà ben guardarsi da un’agguerrita Google che si prepara ad acquisire (per 2,1 miliardi di dollari) Fitbit, azienda leader nei prodotti collegati al fitness e resa famosa dall’orologio esibito dall’allora presidente americano Barack Obama.

La concorrenza di Apple e del suo Applewatch ha picchiato duro in questi anni sul titolo Fitbit, quotato al NYSE di New York e caduto dai 47,6 dollari per azione del 2015 ai 7 dollari attuali.

Il titolo Fitbit Inc ha guadagnato oltre il 15% nella seduta di Venerdì 1 Novembre, dopo l’annuncio dell’operazione di acquisto da parte di Google.

Il deal dovrebbe chiudersi nel corso del prossimo anno, dopo le approvazioni di azionisti e regolatori.

La sfida di Google a Samsung e Apple su tutti, è così servita nel mercato degli “orologi che sanno anche segnare l’ora”.

Nel frattempo, quella di Venerdì scorso è stata anche la giornata del nuovo record a Wall Street del titolo Apple che, a 255,8 dollari per azione, ha fatto volare la capitalizzazione del big di Cupertino oltre i 1.100 miliardi di dollari.

Tutto questo nel giorno del lancio mondiale in oltre 100 paesi, Italia inclusa, del suo servizio Svod (video on demand a sottoscrizione) Apple TV+, con cui la società guidata da Tim Cook punta a dire la sua in un mercato dominato per ora da Netflix (158 milioni di abbonati nel mondo e 15 miliardi di dollari investiti nell’ultimo anno) e da Amazon Prime Video (100 milioni di abbonati), ma nel quale c’è un’atmosfera da tutti contro tutti visto l’imminente lancio, il 12 Novembre, da parte di Disney della sua Disney+, e da parte anche di Warner Media  del suo Hbo Max a Maggio 2020.

Apple TV+ costerà 4,99 dollari (o euro) al mese, ma sarà gratuita per un anno per chi acquista (o ha acquistato) prodotti Apple dopo il 10 Settembre.

I contenuti saranno pertanto visibili, non solo sui dispositivi Apple, a un prezzo nella fascia più bassa del mercato, visto che Hbo Max debutterà con 15 dollari mensili, e che Netflix ha un profilo sugli stessi valori.

Ne vedremo, in tutti i sensi, delle belle …


  1. PLASTIC BUBBLES, IL CASO BIO-ON

E’ stata definita da molti come la “bolla della plastica”, o plastic bubbles appunto.

Sto parlando della parabola di Bio-on, da regina dell’AIM (mercato di Borsa italiana dedicato alle piccole e medie imprese quotate, dove l’azienda aveva superato il miliardo di valore pari circa a 1/5 dell’intero listino), ai sequestri della Guardia di Finanza che nei giorni scorsi hanno letteralmente travolto la società bolognese di bioplastiche, azzerandone i vertici societari con l’accusa di false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato.

In ballo ora la continuità aziendale, con lo spettro del fallimento, in seguito alla conseguente apertura di un procedimento di bancarotta.

Una parabola vertiginosa quella di Bio-on, azienda nata nel 2007 con il sogno di rivoluzionare il mondo della produzione delle bioplastiche.

Il 24 Ottobre 2014 il gruppo si quota sull’AIM di Piazza Affari, fino a diventarne, dopo una crescita sostenutissima, una società dal valore superiore al miliardo (nel gergo delle start-up viene definita un “unicorno”).

I rialzi la spingono a valere, per la precisione, 1 miliardo e 69 milioni di euro, e sul carro Bio-on salgono diversi investitori che ne acquistano parte dell’azionariato.

Ma nel mese di Luglio un fondo americano pubblica un report sulla società dal titolo “Bio-on: una Parmalat a Bologna?”. 25 pagine di analisi che mettono sotto tiro contabilità, modello produttivo, fondatezza della tecnologia alla base dell’azienda.

E qui il meccanismo si inceppa e le cose iniziano a scricchiolare, con il titolo dell’azienda che in poche sedute crolla del 70%.

Una caduta libera e fragorosa attorno alla quale si accendono i riflettori della Procura di Bologna e della Consob.

Nel frattempo, il titolo è stato sospeso a tempo indeterminato dalle quotazioni, e si stima ammonti ad almeno 400 milioni di euro la perdita subita dai piccoli risparmiatori sedotti e amaramente abbandonati da previsioni aziendali ammiccanti e ottimistiche, verso obiettivi sempre più importanti cui non corrispondevano però veri ricavi.

E’ la posizione finanziaria netta dell’azienda a svelare il buco causato in un anno: tra il 2017 e il 2018 si è passati da un +24,2 milioni di euro a un -22,5 milioni.

Una grave variazione netta in negativo di ben 46,7 milioni, con problemi che sembrano nascere da lontano, fin dal 2014 quando la società iniziava a bruciare liquidità e a veder diminuire i flussi in entrata.

Il caso Bio-on ci deve, ancora una volta, far comprendere che avvicinarsi alla Borsa è un affare serissimo.

Per questo occorre essere muniti di grande senso di responsabilità.

Serve possibilmente informarsi adeguatamente e serve, soprattutto, evitare scommesse e affidarsi a chi ha le competenze per investire.


  1. DA PIAZZA A PIAZZETTA AFFARI

E’ sempre meno importante, purtroppo, la Borsa di Milano sullo scacchiere della finanza internazionale.

L’autorevole Area Studi di Mediobanca ha recentemente certificato la continua perdita di importanza del mercato finanziario domestico, scivolato in ventesima posizione al mondo per capitalizzazione .

A fine 2008, Borsa Italiana era sedicesima al mondo, con una capitalizzazione di 375 miliardi pari circa al 24% del Pil dell’epoca.

Tra il 1998 e il 2001 occupava addirittura una posizione tra l’ottava e la nona.

A fine Settembre 2019 il valore di Piazza Affari era pari a 517 miliardi di euro complessivi, che salgono di 100, a 618 miliardi, includendo le società attive in Italia ma con sede fiscale all’estero (Exor, FCA, Cnh Industrial, Ferrari, Stm e Tenaris).

Colpa principale di questo downgrade sta soprattutto nella contrazione dei titoli bancari, non compensata dalla crescita delle aziende a partecipazione pubblica (Enel, Eni …), vere regine di capitalizzazione, mentre la crescita delle piccole e medie aziende private non basta a farci risalire in graduatoria.

Ai primi tre posti ci sono due piazze finanziarie americane, il NYSE (New York Stock Exchange con capitalizzazione pari a 20.816 miliardi) e il Nasdaq (10.763), seguite dall’indice azionario giapponese di Tokyo (5.270 miliardi).

Le borse finanziarie mondiali, sempre a Settembre 2019, registravano una capitalizzazione totale di 72.415 miliardi di euro (+210% rispetto al 2008).

Considerando le principali 25 Borse mondiali, Piazza Affari dal 2008 è stata quella che ha recuperato meno valore (+40%), subito dopo la Spagna, con Thailandia (+592%) e il Nasdaq USA (+566%) al vertice per tasso di crescita.

Occorre sapere e considerare questi dati quando si vanno a investire i propri risparmi.

Esporsi eccessivamente infatti a un paese finanziario piccolo e in difficoltà a livello economico, come il nostro, è molto rischioso.


  1. CAMBIO AL VERTICE

Il cambio a cui mi riferisco, è quello tra Christine Lagarde e Mario Draghi alla presidenza della Banca Centrale Europea (BCE).

Dal primo Novembre, dopo 8 anni di presidenza Draghi, entrerà infatti in carica l’ex (prima donna) direttrice operativa del Fondo Monetario Internazionale, ed ex anche (sempre prima donna) ministro delle finanze francese.

La Lagarde, 63enne e avvocato di formazione, avrà sicuramente davanti a se mesi di difficoltà, durante i quali il rallentamento delle economie mondiali, i venti protezionisti, i limiti delle politiche monetarie, si intrecceranno con opposizioni interne alla banca, ed esterne in alcuni governi, a cominciare da quello tedesco e olandese, che vedono nel cambio di presidenza l’occasione per un cambio anche di stagione, dal momento che quella dell’era Draghi l’hanno sopportata ma poco supportata.

La sfida sarà quella di evitare all’Eurozona un secondo decennio perduto di crescita bassa e insufficientemente inclusiva.

Non c’è infatti dubbio che l’economia europea stia perdendo slancio, con venti contrari strutturali e ciclici che stanno gravando sull’attività produttiva.

Le precedenti previsioni di crescita di circa il 2% per il 2019 stanno ora convergendo all’1%, ma potrebbero anche scendere più in basso.

Bisogna rendersi conto del fatto che l’Europa rischia di soffrire di quella che gli economisti chiamano “crescita a velocità di stallo”.

In queste condizioni la crescita potrebbe rimanere positiva, ma sarà insufficiente per far fronte alla crescente domanda di servizi sociali, alla necessità di migliori infrastrutture e per affrontare il popolare malcontento.

In quella che è già un’economia strutturalmente deteriorata, gli europei devono ora fare i conti con l’impatto negativo delle tensioni commerciali globali, che hanno colpito in modo particolarmente pesante i settori dipendenti dall’export in Germania, vero motore della regione.

Il coraggio non le manca, buon lavoro Christine!


  1. L’ATTRACCO IN BORSA DEI SUPERYACHT

Perdonami.

So di aver già parlato di questo argomento nella mia 7 Notizie in 7 Minuti del primo Ottobre, ma il settore della nautica made in Italy mi affascina molto e voglio darti degli ulteriori aggiornamenti.

Se Ferretti ha recentemente rinunciato allo sbarco a Piazza Affari “nonostante l’apprezzamento manifestato dagli investitori, in particolare italiani e asiatici, perché il deterioramento delle condizioni dei mercati finanziari non consentono di valorizzare correttamente la società”, tutto è invece quasi pronto per lo sbarco in Borsa di Sanlorenzo, leader mondiale nella produzione di yacht di alta gamma.

Il gruppo metterà entro l’anno a disposizione degli investitori italiani ed esteri il 35% del suo capitale, tramite l’offerta di azioni di nuova emissione, e di azioni attualmente detenute dalla Holding Happy Life Srl (azionista di maggioranza della società) per soddisfare i requisiti di flottante richiesti.

L’aumento di capitale servirà principalmente a rafforzare la crescita, e dopo l’offerta la società prevede una struttura finanziaria ampiamente esente da debito.

Sanlorenzo è una realtà unica, costruttrice di barche curate nel dettaglio, di grande qualità e design, rigorosamente su misura per clienti esigenti, veri connoisseur della nautica.

Una sorta di club esclusivo di esperti yachtsmen legati al cantiere.

Sanlorenzo conta oggi su 450 dipendenti diretti, e un ecosistema di oltre mille aziende artigiane fidelizzate che costruiscono il tailor made per i clienti.

I ricavi netti da nuovi yacht per il 2019 saranno compresi tra i 430 e i 456 milioni di euro.

L’obiettivo dello sbarco in Borsa è quello di dare a Sanlorenzo il maggior respiro internazionale possibile, mantenendo però il principio di scarsità, proprio delle aziende del lusso, con un numero selezionato di yacht consegnati ogni anno (50 imbarcazioni nel 2018).

L’azienda è oggi leader mondiale in yacht tra i 30 e i 40 metri, ma ha mantenuto l’assetto di club riservato esclusivo del quale fanno parte meno di un migliaio di armatori selezionati.

La quotazione è per Sanlorenzo un nuovo punto di partenza, non un traguardo, per poter continuare il percorso di crescita equilibrata cominciato 60 anni fa e poi accelerato, oltre a consolidare la sua posizione competitiva.

Buon vento allora Sanlorenzo!


  1. LA PIU’ GRANDE OFFERTA PUBBLICA INIZIALE (IPO) DELLA STORIA

Da molti è stata definita proprio come l’”Ipo del secolo”.

Sopravanzerà per dimensioni anche quella della cinese Alibaba.

Sto parlando dell’offerta pubblica iniziale di Saudi Aramco (contrazione di Arabian American Oil Company), il cui attesissimo debutto in borsa avverrà l’11 Dicembre.

Si tratta di un evento annunciato dalle autorità di Riad oltre 3 anni fa, per la precisione a Gennaio 2016, e poi sempre rinviato.

Stavolta però dovrebbe essere la volta buona per lo sbarco in borsa della compagnia petrolifera nazionale saudita, più importante finanziatrice del governo essendo posseduta al 100% dallo stesso.

Ad Aramco si deve 1 barile su 8 dei 100 milioni di barili di petrolio ogni giorno estratti sul nostro pianeta.

Secondo Bloomberg, la società avrebbe registrato profitti per ben 68 miliardi di dollari nei primi 9 mesi dell’anno, mentre l’esercizio 2018 si era concluso con utili record a 111 miliardi di dollari per quella che si considera come la società più redditizia oggi al mondo.

Più di Apple, Google ed ExxonMobil messi insieme …

Sto parlando di un gigante petrolifero con riserve odierne pari a 268 miliardi di barili, per una rivincita, anche per guadagni, della “old economy”.

L’incognita oggi è quella di trovare una corretta valorizzazione complessiva alla società.

Riad sta da tempo lavorando ai fianchi degli investitori per convincerli che non è inferiore ai 2.000 miliardi di dollari, mentre le banche al lavoro sul collocamento sarebbero vicine a una valutazione decisamente più contenuta, attorno ai 1.500 miliardi.

Il prezzo è previsto per metà Novembre, la vendita delle azioni dal 4 Dicembre, per poi cominciare, dall’11 dello stesso mese, lo scambio dei titoli sul listino saudita Tadawul.

Se sia poi, come si pensa, una mossa propedeutica allo sbarco in grande stile sulle grandi piazze finanziarie come New York e Londra, non è ancora dato a sapere.

Di certo, la quotazione, che dovrebbe riguardare solamente il 2% del capitale, sarà un affare colossale per il governo, nell’ordine di potenziali 40 miliardi di dollari, che dovrebbero poi essere reinvestiti nel piano Vision 2030 mirato a diversificare l’economia saudita, oggi eccessivamente dipendente dal petrolio, in altri differenti settori (sanità, istruzione, infrastrutture, turismo …).

Considerazioni economiche e geopolitiche a parte, sullo sfondo c’è anche una non secondaria questione ambientale da tenere presente: il lento ma ineludibile addio al petrolio implicito nella “transizione” mondiale verso le energie rinnovabili.

E in concreto, il processo che vede sempre un maggior numero di investitori finanziari decisi ad abbandonare le aziende che operano nei combustibili fossili come il petrolio stesso.

Anche per una gallina dalle uova d’oro come Aramco, presa oggi d’assalto da tutte le maggiori banche d’affari internazionali che vogliono ritagliarsi una prestigiosa e lucrosa partecipazione all’Ipo del secolo, non c’è più molto tempo da perdere.



Venerdì 11 Ottobre, il presidente uscente della BCE Mario Draghi ha tenuto una lezione all’università Cattolica di Milano, in occasione della consegna della laurea honoris causa conferitagli dal rettore dell’università.

Rivolto ai giovani, Draghi ha consigliato tre virtù (definite “caratteristiche buone”): la conoscenza, il coraggio e l’umiltà (intesa più precisamente come la virtù del rispetto).

Ancora, ha giustamente detto che “anche il non agire rappresenta una decisione” e tre sono per Draghi gli ostacoli alla decisione stessa “l’inazione trova la sua radice nella convinzione che l’esistente non abbia bisogno di modifiche, anche quando tutta l’evidenza e l’analisi indicano la necessità di agire”.

Il suo ultimo messaggio rivolto ai giovani è poi stato “nella storia le decisioni fondate sulla conoscenza, sul coraggio e sull’umiltà, hanno sempre dimostrato le loro qualità”.


Buon proseguimento di settimana!

Un caro saluto.


Davide