Vorrei oggi iniziare la mia consueta 7 Notizie in 7 Minuti con un consiglio spassionato.
Quello di far visita, a Vicenza in zona industriale (via dell’economia 64/b per la precisione), al DAINESE ARCHIVIO, aperto alle visite il Venerdì e il Sabato dalle ore 11 alle 19 (www.dainesearchivio.com).
Ho avuto modo di prendere recentemente parte ad un evento BlackRock presso questa esposizione permanente nella giornata di Martedì 8 Ottobre, ed è stata un’esperienza veramente entusiasmante quella di percorrere la storia, dal 1972 ad oggi, di questo brand globale, conosciuto non solamente per le sue tute per motociclisti.
Un’esperienza che pertanto consiglio anche a te, che tu sia amante o meno del motociclismo.
Ne vale veramente la pena.
Buona lettura!
- NON ACCADEVA DAL 1992
E’ proprio dal 1992, anno in cui la Cina iniziò a pubblicare i suoi dati economici su base trimestrale, che l’economia del colosso Asiatico non cresce così “a rilento”.
L’economia cinese nel terzo trimestre 2019 ha rallentato infatti il suo tasso di crescita al 6% (questi almeno i dati ufficiali), una performance leggermente inferiore alle attese che rappresenta una ulteriore indicazione di frenata dell’economia globale.
Lo scorso anno il Pil era cresciuto del 6,6%.
Il governo cinese ha da poco varato alcune limitate misure di stimolo all’economia sul fronte fiscale e finanziario.
C’è chi ipotizza che tra alcuni giorni possa essere deciso qualche ulteriore provvedimento.
A simbolo di una congiuntura delicata, si possono prendere due dati: l’export verso gli USA a settembre è sceso quasi del 22%, mentre nei primi 9 mesi dell’anno le vendite di auto in Cina sono diminuite dell’11,7%.
Il Fondo Monetario Internazionale la scorsa settimana ha nuovamente ridotto al ribasso le sue stime sulla crescita mondiale 2019 al 3% (rispetto al 3,8% dello scorso anno).
Siamo ai minimi dalla crisi finanziaria del 2008.
Gli effetti negativi della guerra commerciale in corso tra Washington e Pechino sono stati solo parzialmente alleviati dal recente accordo, molto limitato, raggiunto tra le parti per evitare un’ulteriore escalation di dazi e controdazi.
Pechino, nei giorni scorsi, ha anche presentato il calendario con il quale intende aprire il suo mercato finanziario (da 40 mila miliardi di dollari …) agli investimenti esteri, dando seguito a una promessa già fatta a Luglio.
Questa misura va al di là delle tensioni sui dazi, e tende a rendere più efficiente e competitiva l’economia attualmente in frenata.
Dal 2020 dunque, le società finanziarie straniere (fondi di investimento, gestori patrimoniali, compagnie assicurative) potranno investire in Cina senza limiti di detenzione del capitale.
Potranno cioè salire anche fino al 100% del capitale.
L’eliminazione dei paletti che oggi proteggono gli operatori cinesi dalla concorrenza straniera avverrà in più riprese, anche a seconda del tipo di società.
Finora le società straniere dovevano collaborare con un partner locale, e non potevano comunque detenere più del 51% delle joint venture in cui avevano investito.
Questo ha limitato la partecipazione estera a una frazione del mercato complessivo.
L’apertura del mercato finanziario cinese fa senz’altro gola a colossi come JPMorgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley, UBS, Nomura ed altri, che si sfideranno per aggiudicarsi una fetta di torta che vale miliardi.
Se la Cina, come abbiamo visto, rallenta la sua corsa, quattro mesi di tensioni politiche e manifestazioni di piazza hanno portato in recessione Hong Kong.
I visitatori ad Agosto hanno fatto registrare un -40%, e il retail vede le vendite in calo quasi del 25%.
Ma non si tratta solamente delle proteste, è chiaro che anche Hong Kong soffre le conseguenze delle tensioni commerciali internazionali, e del rallentamento della crescita cinese.
Da catene alberghiere (Holiday Inn e Accor) a vari marchi del lusso, un numero crescente di società internazionali attribuisce al calo del turismo un ridimensionamento dei loro profitti.
Un recente report di Goldman Sachs ha inoltre segnalato trasferimenti di depositi bancari verso Singapore, mentre il settore degli hedge fund di Hong Kong (fondi di investimento speculativi) ha accusato il peggior deflusso di risorse dai tempi della recessione globale, con riscatti netti per circa un miliardo di dollari nel terzo trimestre.
Nonostante tutto questo, il nuovo “Global Competitiveness Report 2019” pubblicato in questo mese dal World Economic Forum ha assegnato proprio ad Hong Kong il terzo posto al mondo come luogo più favorevole per fare business, con una progressione di quattro posizioni rispetto al 2018, grazie in particolare al miglioramento del sistema finanziario.
Al primo posto Singapore ha superato gli Stati Uniti.
L’impeto delle proteste, nel frattempo, sembra non venire meno.
- SE NON PAGHI PER IL SERVIZIO, IL PRODOTTO SEI TU
Ti sei mai chiesto come campano i vari colossi tech che giornalmente ci mettono a disposizione i loro servizi?
Amazon, Twitter, Google, Facebook, Alibaba, Tencent & Co. campano (alla grande) con i nostri dati.
Ogni volta infatti che acquistiamo in rete un prodotto o un servizio, scarichiamo un video o un software, ci scambiamo foto o twittiamo, navighiamo sul web alla ricerca di risposte, oppure memorizziamo contenuti su cloud, produciamo informazioni che valgono tanti, tanti soldi.
Proprio i dati (o big data) già oggi sono il nuovo petrolio!
E nei prossimi anni anche la nostra impronta, la nostra voce e i nostri occhi saranno oro, oro sempre di più.
Tutte le grandi aziende tech (internet è il più grande mercato nella storia dell’umanità) hanno imparato infatti nel tempo ad usare (o meglio sfruttare) le informazioni personali da noi prodotte navigando in rete, elaborandole in algoritmi in grado di orientare i bisogni, i comportamenti sociali, influenzare anche le scelte politiche.
Si chiama profilazione ed è una merce molto richiesta da migliaia di aziende e gruppi di persone.
Ricordate lo scandalo Cambridge Analytica?
E’ questo, ad oggi, l’esempio più noto sulla capacità di queste aziende di influenzare il pubblico.
Nel caso specifico, la società di consulenza britannica rubò 80 milioni di profili, raccolti da un fornitore che aveva effettuato un sondaggio pagando i suoi intervistati, venduti poi a una società statunitense che usò le informazioni personali disponibili sui profili Facebook per influenzare, grazie alla loro elaborazione in algoritmi, gli utenti stessi nel sostegno alla candidatura di Donald Trump, che poi, come tutti sappiamo, vinse la sua corsa alla Casa Bianca.
Ogni singolo profilo può essere venduto più e più volte, producendo ogni volta un ricavo per un diverso attore di questa filiera globale generata a nostra insaputa.
Questa replicabilità rende i nostri profili il bene più scalabile e redditizio.
La moltitudine dei dispositivi connessi che stanno crescendo in modo esponenziale alimentati da una potenza computazionale sempre più veloce, consente direttamente alle multinazionali tecnologiche di sfruttare queste miniere di dati, diventando sempre più sofisticati nel controllo delle tecnologie integrate tra web e mobile.
Danneggiando inoltre la concorrenza su interi mercati, vista la loro posizione dominante.
Molto spesso le autorità Antitrust multano queste aziende per milioni, anche miliardi di euro o dollari, ma le sanzioni si sono dimostrate finora inutili e fagocitate dalla loro crescita esponenziale.
Pensa, si stima che il mercato della pubblicità online raggiungerà i 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, quello delle informazioni prodotte dagli oggetti connessi (internet delle cose) i 130 miliardi, e quello dell’intelligenza artificiale i 60 miliardi entro il 2025.
Sono tutti settori, questi, ove avrebbe senso investire in ottica futura con orizzonte di lungo periodo.
La novità dirompente attualmente in discussione a Bruxelles è quella di consentire agli utenti di disporre dei loro dati, e autorizzarne l’uso solamente in cambio di una percentuale sui ricavi.
Si chiama ePrivacy e ci consentirebbe praticamente di diventare azionisti dei nostri stessi dati.
Una battaglia campale che vede ovviamente l’intera industria hi-tech, da Amazon a Google, da Facebook ad Apple, fermamente opposta.
Informazioni industriali dalle quali deriva l’80% del valore dell’intera filiera …
Un esempio? Prenoto una corsa su Uber.
L’applicazione sa bene dove sto andando, quanto sto pagando e da dove mi muoverò nel caso volessi prenotare poi un’altra corsa.
Uber vende a terzi queste informazioni, che le elabora, analizza e rivende a sua volta.
Un processo che avviene al di fuori del nostro controllo, e ci esclude deliberatamente dall’opportunità di monetizzare.
Già oggi la tecnologia impatta enormemente sulle nostre vite e, guardando al domani, può certamente migliorare il nostro futuro, come può anche metterlo in serio pericolo.
La materia prima dell’età preindustriale era la terra, quella dell’età industriale era il ferro, quella dell’età informatica sono i dati.
Il 90% dei dati che l’uomo ha creato in tutta la sua storia, sono stati creati negli ultimi 3 anni.
Come detto prima, sono il vero petrolio per la creazione dei business del futuro.
Ci sono dei modi per proteggere il proprio anonimato e i propri dati online, come ad esempio usare con costi contenuti dei motori di ricerca diversi da Google (DuckDuckGo sta crescendo molto, oppure Mozilla, o ancora Qwant), Fastmail per la posta elettronica, Vimeo per non finire tracciati su YouTube, Open street maps al posto di Google Maps … ma il vero e unico modo, sul lungo termine, per proteggere totalmente i propri dati è probabilmente quello di diventare degli eremiti, o meglio degli eremiti analogici in un mondo digitale.
Ne vale veramente la pena?
- INVESTIRE (E POSSIBILMENTE GUADAGNARE) NELLE SMALL CAP
Hai già sentito parlare di small cap in ambito finanziario?
Small cap sono quelle aziende quotate in borsa, ma di modeste dimensioni e con una ridotta capitalizzazione (per capitalizzazione si intende il prodotto dato dal numero delle azioni in circolazione x il prezzo dei titoli stessi).
Negli Stati Uniti, ad esempio, le aziende di questo tipo hanno una capitalizzazione compresa tra i 250 milioni e il miliardo di dollari.
In Italia invece (FTSE Italia Small Cap il relativo indice di Borsa) questo range va dai 50 ai 250 milioni di euro.
Nel nostro Paese questo indice rappresenta circa il 4% dell’intera capitalizzazione di Borsa Italiana, e non supera di norma l’1-2% di controvalore giornaliero totale.
Allungando l’orizzonte temporale, le small cap tendono a battere le big anche in ambito mondiale, senza alcuna differenziazione geografica.
Lo testimonia l’andamento dei principali indici azionari globali, con una performance media annualizzata negli ultimi 10 anni pari al +10% per le small (Msci All Country small cap) , contro il +9,13% dell’indice Msci All Country large cap.
Nel medio-lungo periodo il rendimento dei titoli azionari small, tende infatti ad essere migliore di quello dei large per due motivi: la dimensione aziendale (le aziende più piccole hanno maggiori possibilità di crescita attraverso l’espansione in nuovi mercati, cosa già avvenuta solitamente nel caso delle aziende large), e il fenomeno dell’innovazione (nelle aziende medio piccole è infatti solitamente più diffuso un processo di ricerca e sviluppo che porta a una forte innovazione di prodotto e, spesso di conseguenza, a fenomeni di crescita esponenziale).
Strutturalmente e in normali condizioni, la dimensione fa sì che le small cap abbiano mediamente dei tassi di crescita superiori a quelli delle big, e questo è ancora più vero nelle fasi di espansione economica, ovvero nella maggioranza dei periodi storici.
Aziende small con forti utili, con un management esperto e con importanti prospettive di una crescita duratura, rappresentano pertanto delle interessanti occasioni d’acquisto.
Maneggiare, ovviamente, con cura!
- C’ERA UNA VOLTA IL BOT PEOPLE
Non so se ne sei al corrente, ma il costo del denaro non è mai stato così basso.
Non è mai esistito quindi, nella lunga e tormentata storia della finanza italiana, un periodo così favorevole per chiedere un prestito.
Certo, non siamo ai livelli di Germania e Finlandia dove vengono offerti mutui per la casa a tassi negativi, all’insegna cioè dello slogan “ti pago se ti indebiti”, ma poco ci manca.
Secondo l’ultimo bollettino Abi (Associazione bancaria italiana), in Agosto il tasso medio sui mutui casa è sceso all’1,68%.
12 anni fa, prima della grande crisi finanziaria, era al 5,72%.
Il tasso medio sui finanziamenti alle imprese è parallelamente calato all’1,25%.
Era al 5,48% a fine 2007.
Ora, con un costo del denaro così a buon mercato, ci si aspetterebbe che i prestiti esplodessero …
Quelli alle famiglie sono effettivamente cresciuti del 2,5% su base annua.
Quelli alle imprese sono invece leggermente diminuiti (-0,4%).
Qui emerge il primo sintomo di malessere, le cui ragioni sono diverse.
Ma se non si investe infatti con il costo del denaro al minimo storico, quando mai lo si farà?
E’ anche certamente una componente psicologica legata all’incertezza della congiuntura italiana e all’instabilità politica a frenare gli investimenti.
I soldi ci sono, persino troppi forse.
Mancano forse le idee e un po’ di coraggio?
O peggio, una società invecchiata sta perdendo il suo animal spirit e preferisce la condizione rinunciataria dei rentier?
Da tempo i depositi delle imprese crescono, il flusso è positivo da 3 anni.
La preferenza per la liquidità è sintomo di assenza di alternative e regole certe per programmare.
O, ancora, resistenze culturali. Stare fermi può infatti sembrare non avere negatività.
Dalle aziende alle famiglie.
Anche le famiglie italiane continuano ad avere una spiccata preferenza per la liquidità tenuta sui conti correnti, anche se non rendono niente (e a quanto ammontano i costi di gestione su base annua?) e, anzi, in alcuni paesi il rendimento dei conti è già negativo.
In Italia già succede per i conti interbancari, in linea con le disposizioni della Banca Centrale Europea.
La passione per i conti correnti non è solo però degli italiani, che qui riservano circa 1/3 delle loro attività finanziarie, ma accade anche in Germania e in Spagna.
Il Giappone, caso particolare, viaggia addirittura oltre il 50%, grazie a lunghi periodi di inflazione schiacciata.
Una volta allora c’era il cosiddetto BOT people.
Oggi un BTP a 10 anni rende meno dell’1%.
Le delusioni sui titoli di Stato, e anche sulle obbligazioni bancarie (con gli scandali che hanno avuto la loro parte), hanno rilanciato la scelta della liquidità.
Un’altra spiegazione sta nel fatto che, in passato, la certezza di poter contare su un sistema pensionistico pubblico o di categoria (primo pilastro), con alti coefficienti di trasformazione (assegni pensionistici di poco inferiori all’ultima retribuzione lavorativa), ha spinto le famiglie a non avere (o credere di non avere) la necessità di accumulare un risparmio pensionistico.
Questo ha sorretto e “giustificato” a lungo la scelta della liquidità.
La situazione da allora è ovviamente molto cambiata.
Non così, purtroppo, la percezione che le pensioni saranno una percentuale progressivamente inferiore a salari e stipendi.
Il ricorso a strumenti di previdenza integrativa è cresciuto, ma non come sarebbe necessario.
Molto spesso, per gli italiani quindi, il futuro finanziario sembra non esistere.
Quel futuro, occorre stare attenti a non giocarselo!
- SMART CITY, UN TEMA DI GRANDE SVILUPPO E INTERESSE FUTURO
Sempre più si parla di città del futuro.
E’ questo anche un importante e interessantissimo tema di investimento finanziario, con focus in quelle aziende all’avanguardia nell’innovazione tecnologica al servizio dell’urbanizzazione intelligente.
Le città del futuro, si stima, nel 2050 attireranno il 70% della popolazione mondiale.
Già oggi in città ci vive il 50% della popolazione, e nelle stesse si produce l’80% del Pil globale.
Ma come saranno messe in relazione tra loro abitazioni, uffici, trasporto pubblico e privato, ed altro, altro ancora nell’era delle smart city?
Due sono le risposte a questa domanda: 5G e Internet of things.
Se nel 1990 erano 2,3 milioni le persone che usavano Internet, oggi sono 3 miliardi.
La sfida che attende le città del domani è quella di semplificare la vita degli abitanti e di migliorare l’ambiente.
Il centro di gravità, dal Nord America e dall’Europa, si sta sempre più spostando a Sud e ad Est.
Molte delle aree attualmente più sviluppate stanno infatti per essere superate da quelle emergenti, soprattutto in Cina, India e America Latina.
Le città che già oggi sono in fase avanzata, e dotate di una strategia smart ufficiale, sono capitanate da Vienna, seguita da Londra, dalla canadese St. Albert, e dalla città-stato Singapore.
Nell’immediato è la mobilità il settore dal quale ci si aspettano le principali novità: dall’alimentazione green, allo sharing, fino alla guida autonoma.
E se il numero delle auto aumenterà (si calcola circa in 3 miliardi di unità), assisteremo a un’invasione “verde” in cui sarà d’obbligo la parola “condivisione”.
Si prevede che nel 2040 il 75% del parco circolante globale sarà a guida autonoma con i veicoli perfettamente integrati con l’Internet of things, e collegati cioè con marciapiedi, palazzi e pedoni.
Sarà quindi necessario configurare le strade in vista di una gestione più flessibile del traffico, con il conseguente calo di emissioni, incidenti e ingorghi.
Se attualmente ancora si lavora per aumentare le colonnine di ricarica delle auto elettriche, in futuro si potrebbe sfruttare la ricarica dinamica con la realizzazione di corridoi elettrici composti da piastre annegate nell’asfalto, capaci di rifornire le vetture in marcia.
Già oggi il buon utilizzo di servizi via app (come Uber o Car2Go) ci può dare una cifra di quanto sarà naturale usare lo smartphone come passe-partout.
E i semafori?
Non saranno probabilmente più necessari, perché i veicoli potranno comunicare tra loro e rallentare all’arrivo allo stesso incrocio.
Per quanto riguarda invece la logistica, saranno i droni a occuparsi delle consegne.
Il World Economic Forum sottolinea poi che entro il 2024, il 50% del traffico Internet in casa non sarà registrato per comunicazione o intrattenimento, ma per l’automazione domestica (dai frigoriferi intelligenti agli assistenti digitali).
Cambierà il nostro modo di vivere gli ambienti interni.
Nelle città a guida autonoma potrebbe essere più facile anche la condivisione di spazi aperti.
Con il 5G infatti si utilizzerà un’illuminazione pubblica smart, con luci che si accendono solo al sopraggiungere di pedoni o veicoli, garantendo così risparmio energetico e sicurezza.
Le small cells (piccole celle come punti di accesso radio) permettono inoltre una più accurata videosorveglianza, con una definizione delle immagini molto elevata.
Si potrà utilizzare il riconoscimento facciale per individuare criminali o persone scomparse, i sensori potrebbero addirittura riconoscere il tipo di pistola usata in un crimine.
Ancora, le small cells saranno capaci di avvisare la popolazione dell’arrivo di un tornado.
In Italia siamo un po’ indietro rispetto a tutto questo, anche perché le nostre città storiche hanno una struttura e delle necessità differenti rispetto, ad esempio, a una città asiatica costruita ex novo negli ultimi 20 anni.
A Milano però già si iniziano a realizzare dei progetti interessanti, anche in ottica di servizi al cittadino tramite l’uso del cellulare e senza, ad esempio, doversi recare negli uffici comunali.
Le città, in un futuro non molto lontano, saranno allora dotate di sensibilità e capaci di sentire.
Si tratterà però di controllare la tecnologia, per non essere a nostra volta controllati …
- I DAZI VISTI DA DUE DIVERSE ANGOLATURE: CINA ED EUROPA
Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina hanno certamente un impatto sull’economia, ma occorre non dimenticare due elementi:
- la Cina (seconda economia del mondo) ha un’esposizione piuttosto limitata al commercio con gli Stati Uniti, basti pensare che per le aziende che compongono l’indice azionario Msci China, solo l’1,8% dei ricavi proviene dagli States, e le esportazioni nette rappresentano solo il 2% del Pil cinese.
Inoltre, in parecchi settori dell’economia cinese ci sono vari secular trend positivi, sui quali il fattore commercio internazionale gioca un ruolo molto poco significante.
Proprio in ambito Cina, i settori definiti domestic oriented (educazione, salute, information tecnology), in quanto poco condizionati dalle guerre commerciali, e parte proprio di un trend secolare positivo, sono ben visti in ottica investimento.
Girando invece lo sguardo alla nostra vecchia Europa, non sarà l’Italia a pagare il prezzo più caro dei recenti dazi imposti da Trump alle esportazioni agroalimentari verso gli Stati Uniti, in risposta alla partecipazione dei vari paesi al consorzio Airbus all’origine di tutta l’escalation commerciale.
Le nostre imprese infatti rischiano un sovrapprezzo del 25% su 482 milioni di euro di esportazioni, e l’attacco si concentra soprattutto sui formaggi.
La Francia dovrà invece sacrificare cibi e bevande per 1,23 miliardi di euro (vini in particolare), la Gran Bretagna addirittura per 1,8 miliardi (1,6 imputabili soltanto al whisky scozzese), e la Spagna quasi 850 milioni di euro in prodotti agroalimentari, olio d’oliva su tutti.
Le richieste di Washington non sono uguali per tutta la UE in quanto la lista dei beni soggetti a dazio cambia da paese a paese, e penalizza maggiormente le aziende partecipanti al consorzio Airbus.
Nel nostro Paese i dazi si applicherebbero così “soltanto” al 9% delle esportazioni alimentari verso gli USA, con il comparto lattiero-caseario maggiormente colpito e seguito poi dai liquori (vino, olio d’oliva e pasta non sono stati infatti inseriti nella black list).
Per la Spagna la quota di export colpita sarebbe invece pari al 35%, per la Francia attorno al 20 e per la Gran Bretagna addirittura al 60%.
- APPLE E GOOGLE ANCORA REGINE
Per il settimo anno consecutivo Apple e Google conservano le prime due posizioni della classifica dei più importanti brand globali a maggior valore economico.
Il brand dell’azienda di Cupertino ha visto cresciuto il proprio valore nell’ultimo anno del 9% a 234 miliardi di dollari.
Google insegue a 167,7 miliardi (+8%).
Il balzo più importante nei primi 10 posti della classifica dei Best Global Brands (classifica con una storia ventennale ad opera della società di consulenza Interbrand), lo fa però Amazon.
La maxi azienda di Jeff Bezos, nata come sito di e-commerce ed evoluta poi come un’impresa fornitrice di servizi a 360°, è cresciuta in un anno del 24% e stima ora 125 miliardi di dollari.
Esce invece dalla top ten Facebook, a causa probabilmente dei ripetuti scandali legati alla privacy e al controllo dei contenuti sul social.
Al 4° posto Microsoft, al 5° Coca-Cola, al 6° Samsung, al 7° Toyota, all’8° Mercedes-Benz, al 9° McDonald’s e al 10° posto Disney.
E l’Italia è rappresentata da qualche azienda ai primi 100 posti?
Gucci (che fa poi capo al colosso del lusso francese Kering) cresce del 23% (15,9 miliardi di dollari il suo valore) e si piazza al 33° posto.
Ferrari cresce anch’essa del 12% (6,4 miliardi) e raggiunge la 77° posizione.
Prada invece chiude la classifica al 100° posto con un valore stimato di 4,7 miliardi praticamente invariato rispetto allo studio 2018.
Il valore complessivo aggregato delle prime 100 posizioni ha raggiunto nel 2019 i 2.130 miliardi di dollari, con una crescita sul 2018 del 5,7%.
Chiudo la mia 7 Notizie in 7 Minuti con una splendida frase del grande Mahatma Gandhi.
La felicità è quando quello che pensi, quello che dici e quello che fai, sono in armonia.
Ti auguro un piacevole week-end!
Un caro saluto.
Davide