Ottobre è il MESE DELL’EDUCAZIONE FINANZIARIA!
Purtroppo, in passato, il nostro Paese ha sempre investito molto poco in educazione finanziaria.
Sotto questo aspetto siamo infatti al penultimo posto tra i Paesi del G20.
Per troppi anni politica e industria del risparmio hanno preferito tenere i cittadini nell’IGNORANZA, vendendo le banche qualunque schifezza, e i politici raccontando qualsiasi stupidaggine.
Un Paese con una migliore educazione finanziaria sarebbe invece in grado di garantire ai suoi cittadini:
- una maggiore protezione dagli imprevisti;
- un minore (e migliore) indebitamento;
- una migliore allocazione delle risorse;
- più sviluppo, più lavoro, più ricchezza e più servizi per i cittadini stessi.
L’obiettivo del mio lavoro, l’obiettivo anche delle mie newsletter, è quello di diffondere una maggiore CONSAPEVOLEZZA, di informare e di condividere il mio sapere e le mie competenze.
L’EDUCAZIONE FINANZIARIA CONTA E PUO’ SICURAMENTE FARE LA DIFFERENZA!
Essere finanziariamente educati, ne sono convinto, ci può migliorare in termini di ricchezza, di benessere, di tranquillità e pertanto anche di felicità.
Alzare il livello di cultura ed educazione finanziaria dipende quindi anche un po’ da te.
Io credo, è palese, in un futuro diverso e migliore.
Diamoci allora da fare per crescere ed accrescere la nostra conoscenza.
Buona lettura !
- SOLO UNA SU TRE LE CASE ASSICURATE IN ITALIA
Lo leggevo recentemente.
Il nostro è un Paese sottoassicurato.
E il fenomeno è di particolare evidenza se si considerano le protezioni per il bene più amato dagli italiani: la casa.
Una recente ricerca condotta per conto di Zurich mette infatti in luce che solamente il 34,2% delle abitazioni è coperto da un’assicurazione specifica.
In quasi il 40% dei casi però chi ha una polizza ha anche in corso un mutuo, e quindi di fatto non si tratta di una libera scelta, perché l’accensione di un finanziamento bancario comporta obbligatoriamente la stipula di una copertura almeno contro scoppio e incendio.
Vi è una forte differenza territoriale in queste percentuali: al Nord sono infatti assicurate il 55,2% delle abitazioni, la quota scende al 30,4% nel Centro Italia e al 22,4% nel Meridione.
Andiamo dal Trentino, regione con il maggior numero di case assicurate (62%), alla Sicilia con la quota minore (solo l’1,9%).
In oltre il 60% dei casi, chi si è assicurato lo ha fatto dopo aver subito un danno.
Dato molto significativo è quello delle polizze antisismiche: gli immobili residenziali coperti sono meno di 500mila a fronte di 35 milioni di unità. L’1,43% solamente.
Il problema molto spesso è quello della percezione del rischio.
In questo caso, il 91% dei comuni italiani, secondo la ricerca, risulta a rischio idrogeologico, a fronte dell’83% degli italiani che pensano invece di abitare in un territorio esente da rischi.
Tra gli eventi più temuti, la paura maggiore è quella del furto, seguita dal rischio di intrusione, incendio, allagamento causa scoppio tubatura, fuga di gas e, per finire, i danni elettrici.
Tra chi ancora non ha una polizza, il 31% si dichiara non interessato, il 35% è invece possibilista, e un terzo ci ha rinunciato dopo aver valutato quest’idea.
La metà di chi non ha una polizza ritiene inoltre di non stipularla perché troppo costosa.
La percezione media di prezzo è infatti di circa 500 euro l’anno, a fronte però di costi reali inferiori spesso alla metà.
Nel 28% dei casi invece, la rinuncia è dovuta alla poca fiducia nelle compagnie, mentre il 16% ritiene non sia cosa utile.
Una riflessione in merito all’argomento a mio parere non guasterebbe.
- LA LOTTA AL CONTANTE
L’amore degli italiani per il contante è un problema annoso, che ci costa ogni anno, si stima, mezzo punto di PIL.
Ci sono infatti in ballo, per il sistema, 10 miliardi l’anno di costi nella gestione del contante stesso (trasporto e stoccaggio), e 24 miliardi di mancato gettito legato “al nero”.
Tutte risorse che il nostro Paese non può permettersi di sprecare.
L’Italia resta saldamente ai primi posti tra i paesi dell’euro per l’utilizzo del contante nelle transazioni quotidiane di importo ridotto (valore medio delle stesse pari a 14 euro).
Il contante è per noi italiani infatti sinonimo di libertà personale, nonostante si contino in Italia 15 milioni di carte di credito e 56,3 milioni di carte di debito.
L’insano amore degli italiani per il cash, si ritiene, è anche e soprattutto il riflesso della voglia di evadere e di infrangere la legge.
Soltanto il 26% dei pagamenti da noi avviene con carte di credito o di debito, contro il 74% della Finlandia.
Questo nonostante il livello medio delle commissioni sui pagamenti digitali, secondo Euromonitor-Mastercard, è in Italia pari all’1,1%, contro l’1,6% dell’Olanda, l’1,5% della Germania o l’1,2% della Finlandia stessa.
Ci sono 12 paesi in Europa infatti dove si paga di più, nonostante le carte siano più usate.
Secondo gli esperti questi oneri sono destinati a scendere man mano che si affineranno i sistemi tecnologici, e contemporaneamente aumenteranno i volumi di queste transazioni.
Siamo agli ultimi posti per numero di transazioni pro capite, persino dietro la Grecia che generalmente ci salva ...
Da pochi giorni è entrata in vigore la nuova normativa che prevede la comunicazione all’Uif (Ufficio di informazione finanziaria) della Banca d’Italia delle movimentazioni mensili superiori a 10mila euro, limite abbassato rispetto ai precedenti 15mila.
Un giro di vite, quello sulla tracciabilità dei pagamenti, che si innesta nel processo di sensibilizzazione all’utilizzo di strumenti alternativi alla moneta.
La propensione all’uso del contante in Italia, spesso anche irrazionale (basta guardare ai caselli autostradali dove si creano lunghe file per i pagamenti cash), è riscontrata anche in altri paesi europei, come anche la Germania o l’Austria, mentre la Francia è molto più elettronica.
E’ invece quasi inesistente l’utilizzo delle banconote in Finlandia e in Olanda, e ancora meno in Svezia (paese pioniere europeo dei pagamenti digitali, dove i fedeli utilizzano la carta di credito per fare le offerte in chiesa, e dove si stima nel marzo 2023 monete e banconote spariranno del tutto nelle transazioni commerciali al dettaglio).
Il dossier sulla lotta all’uso del contante, per incoraggiare l’utilizzo dei Pos, è nuovamente all’esame dei tecnici del ministero dell’Economia, con lo scopo di far emergere almeno parzialmente un’enorme economia sommersa.
Il premier Giuseppe Conte ha recentemente promesso che i cittadini più diligenti nell’uso dei sistemi alternativi al contante saranno premiati.
Allo studio ci sarebbero meccanismi incentivanti per chi ricorre alla moneta di plastica oltre un certo livello di spesa, e si parla anche di una lotteria sui scontrini fiscali.
Proprio Conte sognerebbe infatti un paese all’avanguardia nella digitalizzazione, nell’intelligenza artificiale, nell’internet delle cose, nella robotica spinta e nello sviluppo delle smart city.
L’introduzione della fatturazione elettronica, ad esempio, è stata a lungo osteggiata tentando anche di ritardarne l’avvio.
Oggi non la contesta (quasi) più nessuno, e nei primi 4 mesi dell’anno ha fatto crescere il gettito Iva del 5,4% nonostante un’economia stagnante.
Sapevi, ad esempio, che la BCE da quest’anno non emette più le banconote da 500 euro perché largamente impiegate in attività al di fuori della legge?
Evasione fiscale, corruzione, criminalità di vario tipo.
L’Italia ne ha una montagna inimmaginabile, cento volte più di quelle che stampava.
La stima del contante che sfugge al fisco ammonta a 200 miliardi.
Saranno all’estero, nelle cassette di sicurezza, un po’ ovunque.
In una fase così delicata per i nostri conti pubblici, alla ricerca di capitali per ridurre le tasse sul lavoro, per aiutare i giovani e per investire sulla scuola, qualche rischio va corso nella battaglia all’utilizzo del contante.
Vale la pena provarci!
- IL TREND DELL’ECONOMIA “DEI NONNI”
Non so se lo sai, ma la transizione demografica che ha condizionato il XX secolo è una grandissima opportunità di investimento.
A livello mondiale, l’aspettativa di vita alla nascita è aumentata di 35 anni in poco più di un secolo.
In base all’attuale trend demografico, le persone di oltre 65 anni (oggi pari a 900 milioni) saranno al mondo 1,4 miliardi tra 10 anni, e addirittura 2,1 miliardi entro il 2050.
Questo fenomeno riguarda sia i Paesi sviluppati che anche i cosiddetti emergenti.
Nel 2050, l’80% della popolazione anziana si collocherà proprio nei paesi emergenti, e la Cina sarà la prima nazione a confrontarsi con la “sfida dell’invecchiamento” visto che la percentuale di pensionati balzerà dal 10 al 25% nei prossimi 15 anni.
L’aumento dell’aspettativa di vita rappresenta un importante cambiamento rispetto alle abitudini di spesa.
Il 55% della crescita dei consumi, da oggi al 2030, arriverà dagli ultra sessantenni, e sarà per 1/3 diretta al settore sanitario e per 2/3 diretta ad allietare (intrattenimento, trasporti, cibo, cultura e tempo libero, moda, sport e turismo), ritardare (bellezza, chirurgia estetica), agevolare e proteggere (domotica, sicurezza, assicurazioni) la terza età.
Un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale ha evidenziato come la spesa degli Stati per le pensioni salirà al 2% del PIL entro il 2050.
Nei paesi sviluppati il numero dei pensionati sta aumentando 3 volte più velocemente del numero dei giovani.
Il denaro che un pensionato può spendere ogni mese, in paesi come gli Stati Uniti, è circa 3 volte quello che un millennial ha a sua disposizione.
La cosiddetta silver economy è sulla buona strada per diventare la terza economia più grande del mondo.
Le soluzioni esposte al tema dell’invecchiamento demografico hanno un’alta esposizione, ad esempio, al settore sanitario.
E’ imprescindibile pensare oggi ai propri investimenti di lungo periodo senza considerare l’impatto che questo trend demografico avrà su economia, aziende quotate e non, e anche, di conseguenza, sui nostri portafogli.
- LA LUNGA FRENATA DELL’IMMOBILIARE
Prudenza dettata da una situazione economica incerta, non solo sul piano nazionale, da trasformazioni socio-demografiche in corso, e da salari che in Italia non crescono da quasi 20 anni.
Non bastano alcuni prezzi vantaggiosi degli immobili e i tassi di interesse ai minimi di sempre per rilanciare la domanda di mutui.
Gli italiani si trovano a fare i conti con un “costo della vita” che in molti casi non permette di sostenere la rata mensile, e in altri spinge ad assumere un atteggiamento di maggiore cautela nei confronti di un impegno economico di lunga durata.
Sono oggi circa 2 milioni le famiglie italiane potenzialmente interessate all’acquisto di un’abitazione.
A favorire il rallentamento delle domande di mutui sono soprattutto due elementi:
la congiuntura economica generale, come già detto, e anche un ritorno a criteri più selettivi da parte delle banche.
Un aspetto, quest’ultimo, che spesso si traduce in una autoselezione della domanda.
La crescita a doppia cifra registrata negli anni scorsi dalle domande di mutui, era spinta e influenzata dalle surroghe (trasferimento del mutuo da una banca ad un’altra a migliori condizioni economiche).
Con il venir meno di queste operazioni, la flessione è da considerare inevitabile.
Va considerato poi che è in atto una trasformazione culturale: per i giovani la casa non è una priorità.
Spinti anche dalle difficoltà del mercato del lavoro, sempre più spesso scelgono di investire su se stessi, in formazione e cultura, per poi andare all’estero.
In questo scenario mobile viene meno la necessità di acquistare un’abitazione.
Anche i dati relativi ai redditi degli italiani aiutano a comprendere meglio il panorama che fa da sfondo alla scelta di comprare casa, o meno, con un mutuo.
Tra il 2000 e il 2017 il salario medio annuo italiano è cresciuto solo dell’1,4% in termini reali, con un aumento di circa 400 euro l’anno.
Nello stesso periodo i compensi dei tedeschi hanno segnato un incremento del 13,6% e i francesi del 20,4% …
- I TERMINI VALUE E GROWTH TI DICONO QUALCOSA?
I titoli azionari sono divisi in due “famiglie”, la famiglia del valore (value) e la famiglia della crescita (growth).
I titoli value sono generalmente preferiti dagli investitori quando si stima l’economia di un paese abbia raggiunto un punto di difficile ulteriore crescita, oppure si avvia alla recessione.
I titoli growth sono invece più adatti alle fasi di boom economico di un paese e della sua economia.
Per stabilire la famiglia di appartenenza dei titoli azionari, vengono spesso utilizzati dei rapporti matematici, come il P/E o price/earning (rapporto tra prezzo di mercato del titolo azionario e utili prodotti dall’azienda), e il P/BV o price book value (ossia il rapporto tra il prezzo del titolo e il patrimonio netto per azione dell’azienda).
Quando questi due rapporti sono bassi, si parla di titoli value, quando invece il loro valore è elevato, si parla allora di titoli growth.
I titoli value sono inoltre spesso sottovalutati dai mercati finanziari, con un prezzo inferiore rispetto al reale valore dell’azienda che rappresentano, e generalmente sono anche caratterizzati da buoni dividendi ma con una crescita a ritmi moderati.
I titoli growth, al contrario, hanno elevati rapporti del loro P/E o P/BV, sono caratterizzati da un alto tasso di crescita e appartengono spesso ad aziende innovative (tecnologiche o farmaceutiche ad esempio), e in una fase di piena espansione nella quale utilizzano gli utili per finanziare ulteriormente la crescita del loro business.
Su quale di queste due famiglie sarebbe allora meglio investire?
La risposta migliore è: su entrambe, diversificando il portafoglio.
Anche perché i periodi di sovra performance dei titoli growth si alternano ai periodi di sovra performance dei titoli value.
Inoltre molto spesso i titoli growth hanno una rischiosità, una volatilità maggiore, e sono quindi maggiormente soggetti a variazioni di prezzo anche consistenti.
I titoli value, al contrario, vantano una maggiore stabilità dei prezzi nel tempo.
Le azioni value identificano le aziende più stabili, che generano annualmente una discreta quantità di utili e che quindi sono più appetibili per gli investitori con una più contenuta propensione al rischio.
Le azioni growth hanno invece un prezzo di mercato molto superiore agli utili per azione della società, utili che potrebbero anche non esservi perché molto spesso le entrate di queste aziende sono assorbite dai costi.
Il loro prezzo elevato è dovuto al fatto che gli investitori credono molto nei loro progetti e ritengono quindi sia probabile che in futuro quell’azienda possa generare e distribuire importanti utili.
Le azioni growth sono pertanto più adatte agli investitori con una maggiore propensione al rischio, alla ricerca quindi di importanti ritorni economici.
Il rischio di questi titoli è che il loro prezzo si sgonfi e rientri in una dimensione più normale e coerente alla reale situazione economica dell’azienda.
E’ anche possibile che un’azione growth, nel tempo, muti le sue caratteristiche e si trasformi in un titolo value.
Attualmente, da una decina d’anni a questa parte, la strategia growth sta sovraperformando la value.
I titoli growth, rappresentando in prevalenza aziende che hanno un forte bisogno di finanziamento, vanno meglio se i tassi rimangono bassi come sta accadendo in questi anni, e accadrà molto probabilmente ancora nei prossimi.
- QUANDO DALLA PALESTRA ALLA BORSA IL SALTO PUO’ ESSERE BREVE
In Italia Technogym la conosciamo un po’ tutti, con il fondatore e CEO Nerio Alessandri considerato come “il padrino delle nuova industria del fitness”, e descritto recentemente da Bloomberg come il personal trainer più ricco e meglio vestito al mondo.
Technogym è un’azienda con sede a Cesena (la sua bella sede è ben visibile sulla destra scendendo in autostrada prima di Rimini), leader mondiale nella produzione di macchine per lo sport e per il tempo libero.
Fondata nel 1983, è sbarcata in Borsa, a Piazza Affari, il 3 Maggio 2016.
Sono passati da allora quasi 3 anni e mezzo, e le azioni dell’azienda si sono rivalutate del 170% contro un rialzo solamente del 20% dell’indice di riferimento Ftse Italia Mid Cap.
Ora Technogym (632 milioni di euro di fatturato per 93 milioni di utile) è prossima a lanciare sul mercato le sue nuove macchine (smart bike, vogatori, tapis roulant) dotate di connessione internet e soprattutto di programmi live.
Streaming di lezioni e programmi on demand animati da allenatori e accessibili solamente se abbonati.
Tutto (o quasi) sta infatti andando verso forme di abbonamento, per stabilizzare i flussi di cassa delle aziende e per fidelizzare allo stesso tempo i clienti.
Tutto questo anche perché Technogym ha ora un competitor importante e agguerrito con cui dovrà confrontarsi in futuro.
Si tratta di Peloton, azienda newyorkese fondata nel 2012 e da poco sbarcata a Wall Street, il cui debutto finanziario non ha però sollevato l’entusiasmo degli investitori (prezzo dell’IPO a 29 dollari e quotazione odierna a 22,4 per azione).
Il valore della società è attualmente attorno ai 7 miliardi di dollari.
In America, grazie all’avanzato ecosistema tecnologico e finanziario, e grazie anche a venture capitalist e grandi investitori pronti spesso a scommettere milioni di dollari su startup e aziende cool e innovative, è tutto sempre più accelerato e moltiplicato all’ennesima potenza ...
L’idea del fondatore di Peloton, John Foley, è stata quella di trasferire a casa dei clienti l’esperienza delle lezioni di spinning (allenamento di gruppo su di una bicicletta ferma e stazionaria) in palestra, con un sottofondo di musica a tutto volume, incoraggiamenti ed urla di carismatici istruttori.
Alcuni definiscono i clienti di Peloton come dei fanatici ed entusiasti appartenenti ad un culto.
Una vera e propria comunità di 1,4 milioni di abbonati, soprattutto tra USA e Canada (sono 50 milioni in oltre 100 paesi e 80mila diverse palestre per Technogym), con una percentuale di abbandono bassissima (0,65% netto mese).
L’azienda vende per ora (a caro prezzo) solamente due tipi di attrezzi: le bici stazionarie appunto per lo spinning (con partenza a 2.245 dollari, circa 2.050 €), e i tapis roulant (4.295 dollari, 3.940 €), con in aggiunta l’abbonamento mensile tutto compreso a 39 dollari che consente di accedere in streaming alle lezioni prodotte dalla stessa azienda, e tenere sempre aggiornato il “mezzo di lavoro” con lo scopo di deliziare il cliente.
Per produrre queste lezioni, questi contenuti (un po’ la Netflix della palestra e del benessere fisico se vogliamo), stanno investendo 50 milioni di dollari in uno studio a New York e altri 50 milioni per uno studio a Londra.
Insomma, in Peloton, per sostituire l’abbonamento della palestra e portarlo a casa dei clienti, stanno mettendo su un cinema mica da ridere …
Si stimano in circa 180 milioni le persone oggi al mondo abbonate ad una palestra.
Il fatturato di Peloton è decollato dal lancio della prima bicicletta, ma con esso anche le perdite pari, nel bilancio 2018, a 245 milioni di dollari (5 volte tanto le perdite del 2017, ma con un fatturato cresciuto del 110% a 915 milioni).
Pesano molto gli investimenti in crescita, marketing (35% delle vendite), reclutamento di trainer famosi, e licenze musicali (per le colonne sonore da usare durante gli esercizi i costi ammontano a 50,6 milioni in 3 anni, senza contare i rischi di cause intentate negli anni dalle case discografiche).
Finora il mercato di Peloton è stato quasi solamente a stelle e strisce, ma è già in atto lo sbarco in Europa a partire dalla Germania.
Un test importante quindi per diventare un brand globale e giustificare il prezzo delle macchine e il debutto stesso a Wall Street.
- VIA DELLA SETA CINESE? LA RISPOSTA NELLA NUOVA COLLABORAZIONE UE – GIAPPONE
Venerdì 27 Settembre è stato siglato a Bruxelles un accordo tra Unione Europea e Giappone (presidente uscente della commissione europea Juncker e primo ministro giapponese Shinzo Abe) per la promozione congiunta di infrastrutture di qualità e di una connettività sostenibile in particolare nelle aree regionali di Balcani Occidentali, Europa Orientale, Asia Centrale, Indo-Pacifico ed Africa.
Il testo dell’accordo non menziona mai la Cina, ma sembrerebbe proprio essere una risposta alla Belt & Road Initiative di Pechino, in quanto UE da una parte, e Giappone dall’altra, sembrano riassumere per contrasto tutte le critiche alla BRI (ormai include oltre la metà dei 28 Paesi membri UE), spesso accusata (la Cina stessa) di una scarsa trasparenza e di gravare i paesi beneficiati di un eccessivo indebitamento al fine di attrarli nell’orbita cinese.
Bruxelles e Tokyo chiariscono prima di tutto di voler promuovere apertura, trasparenza, inclusività ed equità di condizioni per tutti i soggetti coinvolti, investitori compresi.
Pratiche trasparenti negli appalti e alti standard di sostenibilità ambientale, socio-economica e finanziaria.
Cercheranno poi sinergie e complementarietà tra le rispettive cooperazioni con Paesi terzi, prestando massima attenzione alla loro capacità fiscale e alla sostenibilità del debito.
E’ stato poi dato il benvenuto al memorandum d’intesa tra la European Investment Bank e la Japan International Cooperation Agency, nell’auspicio di una stretta collaborazione per i finanziamenti nei Paesi in via di sviluppo.
L’obiettivo è anche quello della creazione di un libero flusso di dati, con garanzie di privacy e sicurezza.
Sforzi pertanto di rilancio di una cooperazione multilaterale, messa sempre più in discussione dall’unilateralismo americano.
In Cina, nel frattempo, è stato inaugurato alcuni giorni fa il nuovo, futuristico aeroporto Daxing LE di Pechino, costruito in meno di 5 anni e candidato alla leadership mondiale con un obiettivo di 100 milioni di passeggeri quando sarà pienamente a regime, entro il 2040.
Lo scalo si avvale del design, firmato dall’archistar Zaha Hadid, di una stella marina ed è dotato di ben 8 piste, di robotica spinta, intelligenza artificiale e di dimensioni ovviamente impressionanti (700.000 mq di estensione pari a quasi 100 campi da calcio).
Un caro saluto e buona settimana!
Davide