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www.davideberto.it2024-10-11
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    Nei giorni scorsi è venuto a mancare l'economista americano, premio Nobel per l'economia nel 1990, Harry Markowitz.
    Aveva 95 anni.

    L'idea centrale dei suoi studi è quella che la diversificazione riduce il rischio complessivo di un portafoglio d'investimento, senza sacrificarne il rendimento.
    Combinando asset con una bassa correlazione tra di loro, è possibile ottenere un portafoglio in grado di offrire una maggiore stabilità e una migliore protezione contro le inevitabili fluttuazioni di mercato.
    Da qui la sua famosa citazione "Negli investimenti, l'unico pasto gratis è la diversificazione".

    La sua esperienza ci ha fatto comprendere che neppure gli economisti, nonostante la loro conoscenza teorica e le formule che propongono, sono immuni dalle emozioni personali quando si tratta di prendere decisioni finanziarie.
    Paura, avidità, desiderio di minimizzare i rimpianti, possono influenzare le decisioni anche dei premi Nobel.
    Ogni persona, ogni individuo ha una propria tolleranza al rischio, e unici, personali obiettivi finanziari, che vanno assolutamente considerati nella costruzione di un portafoglio d'investimento.
    La consapevolezza di sè e delle proprie emozioni, aiuta a prendere decisioni finanziarie più consapevoli e a lungo termine.
    Grazie Harry e buon viaggio!

    Ti auguro una buona lettura.
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    1 - IL RISCHIO PRINCIPALE

    Ricordalo sempre: il rischio principale, quando investiamo, non è tanto nei mercati, ma più che altro in noi stessi!
    Potremmo definire anche un portafoglio ottimale, da portare avanti nel corso della nostra vita, ma ugualmente, prima o poi, dovremo fare i conti, più che con il mercato, con noi stessi, e con la nostra tolleranza e resistenza ai cali di portafoglio.

    Il fatto è che, purtroppo, non siamo in grado di conoscere la nostra reale tolleranza al rischio finché non lo tocchiamo con mano quel rischio, con buona pace della teorica profilatura Mifid (quella che io chiamo "carta d'identità dell'investitore").
    Come può un risparmiatore che non ha mai investito e perso soldi sul mercato, sapere come ci si sente a vedere il proprio patrimonio decurtato da un bear market?
    Lo stesso "comprare sui ribassi" è piuttosto semplice sulla carta e ogni calo passato sembra un'opportunità, ma ogni calo presente (non sembra) è un rischio, e non possiamo sapere se saremo in grado di acquistare davvero durante un ribasso se, ad esempio, non abbiamo attraversato un 2008 e aggiunto coscientemente denaro ai nostri investimenti in quel momento.
    Il mantenere la rotta è un ottimo principio da definire a priori, ma nel corso della pandemia del 2020, o anche nel corso del più recente 2022, quanti di voi sono rimasti investiti, e quanti hanno invece liquidato le loro posizioni in cerca di una qualche forma di rifugio?

    Certo, prendere decisioni in condizioni d'incertezza non è mai facile.
    Il futuro lo conosciamo solo quando diventa passato, e le previsioni lasciano spesso il tempo che trovano.
    Quindi, qualunque sia il modello di portafoglio che avete adottato (purché sia opportunamente diversificato e costruito senza fare scommesse specifiche) e messo in conto che il portafoglio perfetto non esiste, la cosa veramente importante è quella di essere consapevoli che ogni correzione è passeggera, e che ogni decisione che prendiamo è possibile solamente perché dall'altra parte ce n'è una di senso opposto.
    Ovvero, se ad un certo punto vogliamo vendere tutto e chiamarci fuori, dall'altra parte ci dev'essere qualcuno che sta comprando ciò che gli stiamo vendendo.
    E viceversa.
    "Il talento sta nelle scelte!" diceva il buon Robert De Niro...
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    2 - L' AMORE E' TORNATO

    C'è poco da fare...
    Gli italiani sono da sempre innamorati dei titoli di Stato...

    Non ci troviamo oggi certamente ai livelli degli anni '80, l'era dei BOt people, quando si investiva solamente nei titoli rappresentativi del nostro debito pubblico.
    Ma l'amore è tornato, e le famiglie italiane detengono attualmente circa il 10% del (mostruoso) passivo italiano, un livello nuovamente in crescita dopo i minimi degli ultimi anni caratterizzati da rendimenti risibili.
    L'inflazione è infatti riapparsa dopo decenni, e i tassi di interesse in Europa sono passati in pochi mesi da sotto 0 al 4%, come lo erano prima del 2008 quando iniziò la grande crisi finanziaria.
    Di conseguenza, negli ultimi due anni, il rendimento del BTp decennale è passato da sotto l'1% a oltre il 4% attuale.
    Un balzo enorme in un periodo relativamente breve, che riflette proprio un mondo ribaltato dall'inflazione stessa.
    Tutto questo ha spinto i flussi di acquisto verso i BTp.
    Tanto che, lo scorso anno, gli acquisti di titoli di Stato da parte delle famiglie italiane hanno raggiunto la non certo banale cifra totale di 54 miliardi, non lontana dal livello record di 61,6 miliardi del 2011, anno in cui l'innamoramento italico per BoT & BTp raggiunse il suo apice.

    Ultima in ordine di tempo è stata l'emissione del BTp Valore, capace di raccogliere la cifra record di 18,2 miliardi di €.
    Il risultato più elevato di sempre in un singolo collocamento di titoli di Stato per piccoli risparmiatori.
    L'investimento medio pro capite è stato significativo: 27.800 € per ogni singolo investitore.
    Questo rinnovato interesse nasce allora da un'inevitabile ricerca di rendimento.
    Ma deve aprire anche un'attenta riflessione in merito al tema della diversificazione dei portafogli d'investimento finanziari: attenzione a non esagerare e a non esporre eccessivamente i propri capitali a questi strumenti d'investimento!
    Come detto, il nostro paese è caratterizzato da un debito molto, molto importante.
    Non falliremo, spero ovviamente, ma non si può mai sapere, in futuro, che piega prenderà il passivo italiano.
    Non succede, insomma, ma se succede...

    BoT e Btp sono le sigle che identificano i titoli del nostro debito pubblico.
    Si possono sottoscrivere all'emissione, direttamente "dalle mani" dello Stato, o acquistare poi successivamente nel corso della loro durata sul mercato secondario, come si fa con i titoli azionari.

    BoT è l'acronimo di Buono ordinario del Tesoro, un titolo di brevissima scadenza compresa tra 1 e 12 mesi.
    I BoT sono titoli "zero coupon", ossia privi di cedola.
    Il loro rendimento è dato allora dalla differenza tra il prezzo di acquisto (il titolo viene emesso a sconto, ossia pagato al momento della sottoscrizione per un valore inferiore a quello del suo nominale) e quello di rimborso a scadenza.

    BTp è invece l'acronimo di Buono del Tesoro poliennale, e sotto questa sigla sono racchiusi tutti i titoli di Stato con scadenza oltre l'anno, generalmente compresa tra i 3 e i 50 anni.
    I BTp rappresentano oggi circa il 70% di tutti i titoli di Stato italiani.
    Sono titoli a tasso fisso a medio e lungo termine, e staccano cedole annuali pagate semestralmente.
    A loro volta i BTp hanno dato origine, soprattutto negli ultimi anni, a delle speciali sottocategorie.
    Vediamole assieme.

    - BTp Italia
    Titolo i cui rendimenti sono indicizzati all'inflazione italiana.
    Il primo BTp Italia è stato lanciato nel 2012, concepito per il piccolo risparmiatore ma aperto anche agli investitori istituzionali (banche, SGR...).
    Per gli investitori che mantengono il titolo fino alla sua naturale scadenza è previsto un premio fedeltà.

    - BTp Inflation Linked
    Titolo di debito simile al BTp Italia, ma legato all'andamento dell'inflazione europea.
    Investendo in questo BTp, il capitale rivalutato non viene distribuito ogni 6 mesi come avviene con il Btp Italia, ma si accumula nel tempo fino alla scadenza del titolo.

    - BTp Futura
    Concepito per rilanciare il paese nel post pandemia.
    Ad oggi sono state realizzate 4 emissioni, caratterizzate da scadenze medio-lunghe e da cedole crescenti nel tempo (meccanismo denominato "step up").
    Anche in questo caso, per chi acquista il BTp nei suoi giorni di emissione e lo detiene fino a scadenza, è previsto un premio di fedeltà pari al tasso medio di crescita del Pil nazionale registrato durante la vita del titolo.

    - BTp Valore
    E' l'ultimo strumento nato e collocato di recente.
    Gode di una durata media (4 anni), e da tassi d'interesse crescenti nel tempo (3,25% nei primi due anni, 4% nei restanti due).
    Anche in questo caso è previsto un premio fedeltà a scadenza, pari allo 0,5% del capitale investito.
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    3 - SUA MAESTA' MSCI WORLD

    Chiunque metta piede in un ambito d'investimento azionario, non può pensare di rimanere fuori dalla traduzione finanziaria dell'economia mondiale: l'MSCI World, ossia l'indice azionario globale.

    E' allora opportuno conoscere meglio questo paniere di titoli, e capire, nell'ordine, quali sono le sue caratteristiche, che performance nel tempo ha saputo riconoscere agli investitori, e, ultimo ma non ultimo, per quali motivi un investitore non dovrebbe farne a meno.
    Andiamo allora.

    - COMPOSIZIONE E CARATTERISTICHE
    L'indice MSCI World è stato creato nel 1969 da Morgan Stanley Capital International, società di servizi finanziari che commercializza strumenti di ricerca e analisi per banche, SGR, fondi pensione...
    L'indice è composto da 1.500 titoli, e al suo interno il peso di ogni singolo titolo azionario dipende dalla capitalizzazione di mercato della rispettiva azienda.
    Questo significa che, sebbene l'indice sia rappresentativo di una quantità enorme di aziende sottostanti, il suo andamento è condizionato dalle azioni più rilevanti.
    All'interno dell'indice sono presenti titoli di 23 paesi sviluppati, con l'America a farla da padrona incontrastata visto che il mercato USA pesa quasi per il 68% dell'indice intero.
    Nell'MSCI World sono presenti anche titoli delle più importanti aziende italiane quotate in Borsa: Enel, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Eni, Assicurazioni Generali...
    Rimangono fuori da questo paniere le aree geografiche in via di sviluppo, presenti invece all'interno dell'indice MSCI ACWI (All Country World Index).

    Sotto l'aspetto settoriale, il settore attualmente più importante e pesato all'interno dell'indice è quello dell'Information Technology (22,3%), seguito dall'ambito sanitario e farmaceutico (Health Care con il 13,6%) e dal settore finanziario con il 13,2%.
    Seguono a ruota i consumi, l'ambito industriale, i servizi di comunicazione, quello energetico...
    E, se l'IT la fa da padrone, ne va da se che i titoli più importanti all'interno del paniere non possono che essere quelli delle big tech a stelle e strisce: Apple e Microsoft si dividono i gradini più alti del podio, con Amazon al terzo posto, e, a seguire, Nvidia, Alphabet, Meta, Exxon Mobil...
    Insomma, i soliti noti.

    - PERFORMANCE STORICHE
    Come detto prima, oltre al più noto MSCI World, esiste una versione dell'indice ancora più rappresentativa dell'economia mondiale, che risponde al nome di MSCI ACWI.
    All'interno di questo paniere le aziende considerate sono il doppio, ben 3.000, ma, nonostante una più variegata rappresentanza di borse mondiali, nel lungo termine non si sono verificate significative differenze tra i due indici nel computo della loro performance cumulata.
    Se prendiamo un orizzonte temporale decennale, i numeri dicono che il rendimento medio annuo total return (con i dividendi reinvestiti) è stato pari all'8,86%.

    - PERCHE' INVESTIRE NELL'MSCI WORLD?
    Quella di investire guardando al mondo e non ad una singola area geografica, ad un singolo mercato, è a mio avviso una validissima scelta strategica.
    Conviene farlo anche in considerazione del fatto che, guardando al passato, le performance restituite sono state particolarmente interessanti anche quando si comprendono nell'analisi prolungati periodi di difficoltà che economia e mercati hanno dovuto attraversare.
    Le performance annualizzate negli ultimi 30 anni si sono attestate al 7,7%.
    Negli ultimi 40 anni addirittura al 9,6%.
    Negli ultimi 50 anni hanno sfiorato il 10% medio annuo (9,83%).
    A fronte di questi rendimenti storici c'è ovviamente un prezzo che l'investitore posizionato su questo mercato dev'essere disposto a sostenere: non tanto il prezzo della volatilità, ma, più che altro, quello delle cadute.
    I drawdown possono essere infatti violenti lungo il percorso, e i tempi di recupero anche molto lunghi (e non sempre accettabili) prima di tornare a vedere nuovi massimi.
    Questa situazione, in passato, si è verificata solo in parte durante la recente pandemia (l'indice scivolò in poche sedute del 34%, per poi vivere un insperato recupero nei mesi successivi), ma ha caratterizzato prevalentemente altri periodi storici.
    Sono serviti, ad esempio, ben 6 anni per risalire sopra i massimi toccati nel 2007.
    O, peggio ancora, ne sono serviti addirittura più di 13 per rivedere la luce dopo i massimi che anticiparono la bolla internet di inizio millennio.

    Ma un antidoto utile ad evitare simili situazioni esiste eccome, e prende il nome di investimento frazionato.
    La strategia di accumulazione graduale del capitale investito (il semplice e tradizionale PAC), rimane sempre il miglior viatico per proteggersi dai danni procurati dalle improvvise cadute.
    Nonostante, però, la possibilità di imbattersi in periodi di crisi, talvolta anche drastici e crudeli, l'investimento nel mercato azionario globale appare la scelta più lontana dalla scommessa, e più vicina alla certezza di partecipare, in questo modo, alla crescita mai doma per la quale lavorano, ogni giorno, buona parte degli oltre 8 miliardi di abitanti di questo pianeta.
    Una scelta di investimento che non dovrebbe mai mancare nel portafoglio di qualsiasi investitore.
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    4 - UN CLUB ORMAI NON PIU' RAPPRESENTATIVO

    Voglio parlarti del G7: creatura, ormai 50enne, della Guerra Fredda e del primo shock petrolifero (l'embargo Opec del 1973).
    Nacque come club dei paesi più ricchi al mondo, all'epoca tutti occidentali (Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Italia) ad eccezione del Giappone.
    Messi assieme, all'apice del loro splendore raggiunto alla fine degli anni '80, arrivarono a rappresentare addirittura il 70% del Pil mondiale.

    A distanza di decenni, oggi i paesi del G7 sono rimasti gli stessi in una sorta di anacronistica nobiltà perduta, ma producono "solamente" il 45% del Pil globale.
    Sono stati ormai scalzati, a parità di potere d'acquisto, dagli esotici BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), che quando si parla di crescita economica hanno un passo decisamente più brioso.
    La classifica dei Pil non è allora più rappresentata dentro il G7: la Cina è numero due mondiale, mentre l'India e la Corea del Sud potrebbero sostituire Italia e Canada.
    Solo America e Germania salverebbero il loro scranno, mentre tra Francia ed Inghilterra si andrebbe allo spareggio.
    Un aspetto interessante, in tutto questo, è la tenuta dell'America.
    Il Pil americano rappresentava 1/4 di quello mondiale nel 1990 (pari al 40% di quello del G7), e lo rappresenta tuttora nonostante l'ascesa della Cina (58% di quello del G7 oggi).
    Le conclusioni sono lampanti: il declino di questa oligarchia è da imputare quasi interamente alla deludente performance economica dell'Europa.

    E' allora alquanto innegabile che il G7 abbia smesso da tempo di essere realmente rappresentativo degli equilibri economici mondiali.
    Già 15 anni fa Obama, di fronte allo shock della crisi finanziaria, volle spostare il baricentro delle consultazioni fra governi in favore del G20, che giocò un ruolo decisivo nell'arginare le crisi bancarie del tempo grazie ad una reazione coesa e positiva.
    Il problema odierno è che nel G20, oltre alla Cina e ad altre grandi nazioni emergenti, c'è anche la Russia, il che lo ha di fatto reso uno strumento decisionale inutilizzabile nel post-Ucraina.

    Ecco allora il tentativo di rilancio del G7 nella sua vocazione più politica e strategica, attribuendogli il ruolo di "alleanza delle liberaldemocrazie".
    Ma, per la stessa ragione, cresce l'interesse verso altre architetture internazionali, dove trova spazio quel resto del mondo escluso da questo club d'elite, oggi troppo sbilanciato verso l'Occidente.
    In particolare, c'è il grande Sud globale che avanza e che strizza l'occhiolino al variegato universo dei BRICS, mercati emergenti ormai consolidati nelle loro economie.
    Proprio di questi ultimi ti parlerò nella mia prossima 7in7, quella datata 14 Luglio.
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    5 - UNA LEADERSHIP CHIARA E DIFFICILMENTE REVERSIBILE

    Da diversi decenni ormai, è in corso una sfida tra i due centri finanziari, tecnologici ed economici più innovativi del sud-est asiatico: Hong Kong e Singapore.
    Nonostante sia partita in ritardo, oggi quest'ultima ha affermato la sua leadership in modo chiaro e difficilmente reversibile, grazie anche alle politiche messe in campo dal terzo incomodo, la Cina.

    Singapore è una repubblica parlamentare sull'estrema punta sud della Malesia.
    E' una città-stato, tra i più importanti centri finanziari del mondo, nonché uno degli hub tecnologici più avanzati del pianeta.
    Hong Kong è un'ex colonia britannica passata alla Cina nel 1997, oggi regione amministrativa speciale nel sud del Celeste Impero.
    Anch'essa è un centro finanziario a livello mondiale, ma sta vivendo un importante rallentamento negli ultimi tempi.

    Per lungo tempo Hong Kong è stata in vantaggio nella competizione con Singapore. 
    Singapore è partita in ritardo nell'affermarsi come centro rilevante in Asia, ma ha ormai chiuso il gap: se nel 1997 il Pil pro capite delle due realtà era simile (attorno ai 26-27mila $), oggi è di circa 73mila $ a Singapore, contro i 50mila della "controllata" di Pechino.
    La stretta politica voluta dal premier cinese, con anche l'introduzione delle discusse leggi sulla sicurezza nazionale, l'approccio sempre meno votato al business del partito comunista e i continui lockdown anti-Covid, sono tutti elementi che hanno fiaccato l'ex colonia britannica, passata alla Cina da ormai 26 anni.
    Molte persone ed attività stanno migrando proprio a Singapore, dove tira un'aria migliore.

    Ma cosa sta accadendo esattamente ad Hong Kong? 
    Fino a pochi anni fa basava la sua forza sull'essere un'oasi dalle caratteristiche occidentali nel cuore dell'Asia ("dove Est e Ovest si incontrano" si diceva...), ma oggi la stretta di Pechino ne sta cambiando radicalmente i connotati.
    La stampa è stata imbavagliata e quasi tutti i media indipendenti sono stati chiusi. 
    Le università, fulcro delle proteste contro le leggi sulla sicurezza nazionale del 2019, sono ormai sotto il controllo del partito, a cominciare dai docenti.
    La polizia, un tempo amata e stimata, è stata trasformata in uno strumento di oppressione in grado di spaventare, al punto che molti occidentali se ne sono andati per il timore di finire nei guai, accusati di spionaggio o di attività anti-Stato.
    Parliamo di oltre 200mila persone emigrate solo negli ultimi tre anni.
    Le elezioni, che non sono mai state del tutto libere, oggi sono direttamente determinate dalle scelte di Pechino.
    Il suo sistema legale di stampo britannico, in passato vera e propria perla della città, indipendente e fondato sulla certezza del diritto, è sempre più in bilico e non attrae più imprese come in passato.
    Insomma, la Hong Kong di un tempo, anche solo di cinque anni fa, non c'é più.
    Pechino non ha deciso di affossare la sua regione a statuto speciale: semplicemente ha tracciato la via che vede il ritorno dell'ex colonia britannica sotto il pieno controllo del governo centrale, previsto per il 2047, esattamente mezzo secolo dopo l'annessione.

    Tutto ciò avvantaggia inesorabilmente Singapore, che pur non ha mai vantato una poderosa economia e non ha potuto contare sull'eredità britannica in termini di cultura e mentalità.
    Ha dovuto fare da sé, lottando per affermarsi in un'area non facile come quella malese.
    Oggi Singapore è una delle metropoli più verdi, pulite e hi-tech del mondo, e sta dando non poco distacco alla rivale nell'attrarre i business stranieri.
    Il porto di Singapore è il secondo al mondo per volume di container movimentati dopo quello di Shanghai.
    Quello di Hong Kong era il primo fino al 2004, di poco sopra allo scalo singaporiano, ora è al decimo posto.
    Uno studio del Financial Times ha rivelato che dal 2021 hanno messo sede in città ben 500 tra family officehedge fund e gestori di patrimoni, provenienti dalla Cina Popolare.
    Apple, Meta e Google hanno a Singapore i loro quartieri generali per l'Asia-Pacifico.
    Anche alcune banche di Hong Kong vi stanno trasferendo sedi e dipendenti, per non parlare della vivacità nel mondo delle start-up.
    Il rischio maggiore che la città sta correndo al momento è quello legato all'eccessivo costo di abitazioni e uffici, cosa che può disincentivare nuovi arrivi.
    Ciò naturalmente non frena la ricchezza: nel decennio 2012-2022 il numero di milionari con residenza a Singapore è aumentato del 40% a oltre 240mila, mentre quelli con base ad Hong Kong sono scesi del 27% a un pò meno di 130mila.

    Non che Singapore sia il paradiso in terra: anche qui praticamente non esiste la libertà di stampa, e la pena di morte è tuttora in vigore e attiva.
    Ma quando il mondo del business e della finanza occidentale devono scegliere dove mettere radici nel sud-est asiatico, la scelta di Singapore è sempre più in voga.
    Mentre ad Hong Kong rimane ormai solo il ricordo dei fasti di un tempo.
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    6 - RUBRICA: LA PSICOLOGIA DEI SOLDI (NIENTE E' GRATIS)

    Dopo quello del primo Giugno, anche oggi, in chiusura del mese, torna l'appuntamento con il libro "La Psicologia dei Soldi" di Morgan Housel.
    Un appuntamento che, trattandosi di un capitolo piuttosto lungo, preferisco dividere in 2 parti: la prima oggi, la seconda con la mia prossima 7in7 di Venerdì 14 Luglio. 
    Siamo giunti al capitolo numero 15 "Niente è gratis - ogni cosa ha un prezzo, ma non tutti i prezzi sono scritti sull'etichetta".
    L'affermazione sembra ovvia, il problema è che spesso il prezzo non ci è evidente finché non lo sperimentiamo sulla nostra pelle.
    Quando ormai il conto da pagare è già scaduto. 

    "Ogni lavoro sembra facile quando non sei tu a farlo" affermò Jeff Immelt, CEO di General Electric dal 2001, alla vigilia delle sue dimissioni nel 2017.
    Questo, dopo essere stato criticato del tracollo di quella che nel 2004 era l'azienda più grande al mondo (valeva più di 300 miliardi di $), andata poi a rotoli anche in seguito alla crisi finanziaria del 2008.
    Il suo successore, resistito per soli 14 mesi, l'ha imparato a sue spese: le difficoltà incontrate da chi si batte nell'arena sono spesso invisibili al pubblico sugli spalti, sempre pronto al linciaggio.

    Anche in finanza si può applicare questo ragionamento.
    "Conserva le azioni nel lungo periodo" ti sentirai dire con una certa insistenza...
    Certo, è un buon consiglio, ma quant'è difficile mantenere un approccio a lungo termine quando si vedono i propri investimenti scendere in picchiata? 
    Come ogni altra cosa che valga la pena di fare, anche il successo negli investimenti ha un prezzo.
    Non in dollari (o euro) e centesimi però.
    Quel prezzo è la volatilità, la paura, il dubbio, l'incertezza e il rimpianto.
    Tutte cose facili da sottovalutare, finché non ce le troviamo davanti.
    Se non ci rendiamo però conto che investire, e guadagnare di conseguenza, ha un prezzo, saremo forse indotti a tentare di ottenerlo gratis quel guadagno.
    Un'impresa che, come il furto nei negozi, raramente va a finire bene...

    Qualche esempio?
    Il Dow Jones, indice azionario americano, ha reso circa l'11% medio annuo tra il 1950 e il 2019.
    Bastava restare fermi e lasciar lavorare il capitale qui investito, vero?
    Ma il prezzo per godere di quei successi finanziari, in quell'arco di tempo, è stato terribilmente alto.
    Come per la gran parte dei prodotti, maggiore è il rendimento offerto, più alto è il prezzo da pagare prima di goderne i risultati.
    A tal proposito, emblematico è l'andamento del titolo Monster Beverage capace di un +319.000 per cento dal 1995 al 2018.
    Ma durante quel periodo, per il 95% del tempo è stato negoziato al di sotto del massimo precedentemente raggiunto.
    Lo stesso è successo al titolo azionario Netflix: ha reso più del 35.000 per cento dal 2002 al 2018, ma per il 94% dei giorni l'azione è stata scambiata al di sotto del massimo storico precedente.

    Con questi 2 chiari esempi mi fermo, dandoti però appuntamento tra 15 giorni con la seconda parte e chiusura del capitolo 15. 
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    7 - IN GRAVE AFFANNO

    La concorrenza è spietata.
    Il mercato cambia ad una velocità supersonica, e per le aziende di telecomunicazioni (telco o tlc) è una sfida contro il tempo per tenere il passo delle innovazioni richieste dal mercato stesso e dai consumatori.
    Il terreno sotto ai loro piedi sta letteralmente franando...

    La prima criticità, la più evidente, è che queste aziende sono passate dall'essere fornitrici di servizi, ad essere dei veri e propri "corrieri conto terzi".
    Fino a una ventina di anni fa, telefonate, sms, i costosissimi mms (per chi se li ricorda) e le connessioni col contagocce, portavano denaro sonante nelle casse aziendali.
    Oggi la corsa al ribasso dei prezzi ha condotto a un mercato che favorisce il consumatore, ma inesorabilmente piega le aziende, agevolando al contempo chi, grazie alle loro reti, macina guadagni.
    Piattaforme come Netflix, Spotify e Prime Video, che dipendono infatti direttamente dalle connessioni fornite dalle telco, spesso le mettono in crisi con il loro imponente flusso di dati, prendendosi il buono e generando utili, senza doversi curare di efficientare le infrastrutture su cui poggiano.
    Onere, invece, tutto sulle spalle delle aziende tlc, che in questo senso sono diventate dei "corrieri" che trasportano contenuti da una parte all'altra, senza raccoglierne però i giusti frutti in grado di renderle solide e sostenibili nel tempo.

    Lo sapevi?
    Proprio il nostro è il paese in Europa con il più basso prezzo per l'Internet mobile (0,12 dollari per un gigabyte di dati in mobilità).
    Il secondo al mondo, in quanto ci batte solo Israele con un incredibile 0,04 dollari.
    Già in Francia il costo raddoppia, in Spagna triplica, per arrivare addirittura a 2,67 dollari in Germania e a quasi 6 dollari negli Usa.

    La crisi dei colossi del settore è evidente innanzitutto nei numeri dei suoi licenziamenti.
    Vodafone Europa ha annunciato 11.000 esuberi nel vecchio continente, di cui 1.000 in Italia.
    British Telecom prevede addirittura il taglio di 55.000 dipendenti entro il 2030.
    In Italia abbiamo Tim, che ha mandato in pre-pensionamento 4.000 risorse, mentre almeno altri 10.000 lavoratori sono a rischio in caso di un eventuale scorporo della rete.
    Tema, quello dello scorporo, che tocca anche WindTre, con 2.000 esuberi potenziali.
    C'è chi incolpa l'eccesso di concorrenza, affermando che nel nostro paese 5 operatori per 60 milioni di abitanti sono troppi.
    Ma la Germania insegna: Deutsche Telekom riesce a prosperare ed a tenere prezzi 20 volte più alti dei nostri, perché è riuscita ad imporsi come il maggior operatore in Europa (114 miliardi di fatturato per 211.000 dipendenti), conducendo al tempo stesso un'aggressiva campagna acquisti di altre aziende in tutto il mondo.

    Le telco hanno provato nel tempo a correre ai ripari diventando loro stesse fornitrici di servizi e contenuti, trasformandosi così in media company dotate di proprie piattaforme. 
    Ma non hanno fatto presa, perché è difficile (se non impossibile) competere con chi quel lavoro lo fa da più tempo e lo sa fare decisamente meglio.
    Senza contare che, in un mercato già di suo molto complicato, appare utopia voler competere ad alti livelli contando su infrastrutture spesso vecchie, critiche, e poste in luoghi non facilmente accessibili.
    E' così che il 5G, capace di una maggior velocità e di una latenza vicina allo zero, raggiunge oggi solo il 7% del territorio italiano, ed anche in merito alla fibra Ftth, la più veloce e stabile, siamo molto indietro.
    Su tutto questo l'Italia è oggi al 25^ (su 27) posto in Europa.
    Peggio di noi solo Grecia e Cipro.
    Una situazione disastrosa, per stessa ammissione del Governo.

    Intendi allora investire in titoli di aziende operanti in questo settore?
    Presta la massima attenzione!
    Informati bene in merito ai numeri societari, e, se possibile, in merito anche ai progetti futuri dell'azienda di cui intendi diventare socio, o alla quale vorresti prestare il tuo denaro.
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    Anche per questa 7in7 è tutto.
    Ci raggiorniamo a Luglio, Venerdì 14 per la precisione, con la prossima newsletter.
    Non perderti, nel frattempo, tutti i contenuti settimanalmente pubblicati sui miei canali social professionali: Facebook, LinkedIn ed Instagram.

    Perché, se sei informato comprendi.

    Se comprendi conosci.

    Se conosci pianifichi.

    Se pianifichi puoi proteggere la tua famiglia e il tuo patrimonio.


    Ti auguro un sereno fine settimana.
    Un caro saluto.

    Davide