È da poco uscito il 21° Rapporto Annuale INPS, un documento estremamente dettagliato che fornisce informazioni analitiche sullo stato dell’arte della previdenza pubblica in Italia.
L’obiettivo di questo contributo è quello di scattare una fotografia del sistema pensionistico post pandemia, e rafforzare possibilmente la consapevolezza di chi mi legge.
A fine 2021, nel nostro paese si potevano contare 22,8 milioni di lavoratori iscritti all’INPS.
Di questi, 17.963.000 dipendenti, e 4.858.000 autonomi.
Dall’altro lato della barricata, i pensionati sono poco più di 16 milioni (48% maschi e 52% femmine).
Il rapporto tra lavoratori attivi e pensionati si attesta pertanto a 1,42, un livello che conferma il miglioramento tendenziale di lungo termine: vent’anni fa il coefficiente si aggirava infatti intorno a 1,30.
L’INPS eroga in totale quasi 21 milioni di prestazioni.
C’è dunque una parte di platea, beneficiaria al contempo di due o più prestazioni.
In generale, esse riconducibili a due grandi tipologie: previdenza e assistenza.
La previdenza ingloba le pensioni pagate a fronte di contributi versati dal lavoratore, mentre il concetto di assistenza è riconducibile al sostegno offerto dallo Stato a chi ne ha bisogno, a prescindere dunque dal fatto che il beneficiario sia o
meno un lavoratore.
A titolo meramente esemplificativo e non esaustivo, la pensione di vecchiaia è una prestazione previdenziale, la pensione erogata a un invalido civile è una prestazione assistenziale.
Aldilà degli attuali criteri utilizzati dall’INPS per distinguere le prestazioni di carattere previdenziale da quelle assistenziali, balza all’occhio l’importo mensile lordo su cui in media può contare il pensionato italiano: poco più di 1.000 €.
A questo punto, di fronte a questi numeri, ci si potrebbe chiedere: quanto spende lo Stato per tutte queste prestazioni?
C’è equilibrio tra quanto esce e quanto entra?
Senza il rispetto di questo vincolo, infatti, il primo pilastro pensionistico non si reggerebbe in piedi da solo, in quanto verrebbe disatteso il principio della ripartizione, su cui esso si fonda.
Da una prima analisi sommaria del rendiconto finanziario per l’anno 2021, emerge che il totale delle entrate ammonta a 486 miliardi di €, a fronte di uscite per 484 miliardi, per un saldo finanziario di competenza positivo e pari circa a 2 miliardi.
Eppure, andando più in profondità, è facile osservare quanto questo equilibrio finanziario sia apparente ed effimero.
Infatti, a fronte di entrate contributive nell’anno 2021 pari a 236,9 miliardi, le uscite dovute a prestazioni previdenziali si sono attestate a 274 miliardi, per un saldo pensionistico negativo di circa 37 miliardi di euro.
Il gap finanziario, tuttavia, non si ferma qui, in quanto, come si è visto, esistono altri capitoli di uscita che si aggiungono agli assegni previdenziali e che contribuiscono a generare i 484 miliardi di esborsi complessivi: tra queste troviamo le
prestazioni assistenziali, i costi di funzionamento e varie partite di giro, solo per citare le principali.
Per questo, il disavanzo raggiunge livelli sensibilmente più elevati, e richiede un intervento diretto dello Stato che, mediante trasferimenti dalla fiscalità generale, ha versato nelle casse dell’INPS 145 miliardi di € per il solo
2021.
Parliamo in totale di circa 620 miliardi di € travasati all’INPS negli ultimi 5 anni, con gli anni più recenti che hanno visto un importante incremento dei trasferimenti pubblici tra le voci che compongono i ricavi del conto economico
INPS.
La quota percentuale occupata dai contributi dei lavoratori è infatti progressivamente scesa, al punto che oggi essa rappresenta circa il 60% delle entrate complessive.
Il messaggio che così palesemente traspare da questi dati è tanto semplice quanto dirompente: la macchina INPS non è in grado di farcela da sola, e necessita continuamente di denaro pubblico aggiuntivo come carburante.
Senza questo, si fermerebbe.
In un Paese allora segnato da metamorfosi demografiche ampiamente dibattute e sempre più deterioranti, possiamo pensare che questo carburante possa essere incrementato illimitatamente?
Gli effetti delle riforme restrittive operate negli ultimi decenni, disperato tentativo di arginare gli effetti delle riforme sciaguratamente espansive che, in precedenza, consentivano l’uscita dal mercato del lavoro a età irripetibili, saranno sufficienti?
E le misure (Quota 100, Opzione Donna, APE Sociale e così via) che negli anni più recenti hanno consentito a quasi 800.000 italiani di anticipare la pensione, sono costate quasi 50 miliardi e hanno ridotto l’età di pensionamento effettivo, come si collocano in questo contesto?
Quanto è probabile che la politica, con l’obiettivo del consenso a qualsiasi costo, riproponga nel prossimo futuro ulteriori interventi di questo tipo?
Chi paga, e chi pagherà, per tutto questo?
I meandri della previdenza in Italia porterebbero a molte altre considerazioni e interrogativi, ma limitiamoci a ragionare su questi, certi che siano più che sufficienti per comprendere due cose:
1° la profondità del problema;
2° il valore delle soluzioni che (volendo e potendo) abbiamo a disposizione.