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www.davideberto.it2024-10-11
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    La recente discesa dei mercati rappresenta la base per i futuri rendimenti di portafoglio.
    Perché, a volte, per poter continuare a salire, bisogna prima un pò scendere.
    Certo, sullo sfondo rimangono intatti i timori recessivi e quelli dovuti a un'inflazione particolarmente elevata, che hanno dato il la alla "tempesta" di questo 2022.
    Gli investitori si chiedono così giustamente come comportarsi in questo contesto, quali passi compiere, quali opportunità eventualmente sfruttare.

    Il mio consiglio è quello di mantenere il giusto equilibrio.
    Correre rischi speculativi eccessivi, solo perché i prezzi sono scesi e diventati quindi più attraenti, può non rivelarsi la mossa migliore, così come abbandonare la nave e tornare a caccia di tassi sui titoli di Stato o sui conti deposito.
    Quindi, equilibrio nel giudizio, diversificazione negli asset investiti, consapevolezza che il calo avvenuto ha creato i presupposti per i futuri rendimenti, e che l'economia globale, per quanto nel breve periodo possa essere influenzata dalle recenti dinamiche inflattive/recessive, è nel tempo molto più resiliente e resistente di quanto si possa immaginare.

    Ti auguro una piacevole lettura!
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    1 - UN PO' COME IL TOUR DE FRANCE...

    Investire, stavo pensando in queste ultime settimane di Luglio, è in fondo un pò come gareggiare al Tour de France, che, a proposito, si è da poco concluso ed è stato vinto dal giovane ciclista danese Jonas Vingegaard, davanti al favorito della vigilia Tadej Pogacar.
    Molto spesso il vincitore di questi grandi giri a tappe, è colui che è riuscito ad essere il più costante e resistente nel corso delle settimane della competizione.

    Negli investimenti finanziari, il percorso è simile.
    Fra una pedalata e l'altra, sul gradino più alto del podio ci va chi riesce a sopravvivere durante i momenti più difficili (l'Orso), e prendere poi lo slancio quando si è più brillanti (il Toro).
    Naturalmente, nel corso delle varie tappe, ci saranno sempre degli stregoni pronti a fare le loro previsioni e ad indicarci possibili scorciatoie e deviazioni per giungere prima al traguardo.
    Sciamani, guru e profeti esistono dall'alba dei tempi.
    Eppure, analizzando ben 6.852 view di mercato ad opera di 68 diversi esperti, sviluppate nel corso del periodo 2005-2012, scopriamo che le previsioni si sono poi rivelate corrette soltanto nel 47% dei casi.
    Probabilità inferiori di quelle del lancio di una monetina.

    Perché continuano allora ad andar di moda veggenti e profezie sul nostro futuro?
    Ma perché una parte del nostro cervello continua a chiederle, e fin tanto che persiste in noi la convinzione di poter leggere e anticipare il mercato, esisteranno guru e asceti pronti a venderci segnali, prezzi corretti e, più in generale, rumore.
    Come comportarsi allora in un mondo pieno di stregoni e di rumore?
    Bisogna ignorarli e continuare a pedalare!
    Certo, non è facile.
    Anche perché è proprio ora, che il mercato tanto azionario che obbligazionario ha corretto in misura importante, che i profeti si scatenano, chi a decretare l'inferno, chi invece ad annunciare il paradiso.
    E il rumore diventa quasi assordante...
    Quindi, tappi nelle orecchie e via verso la prossima tappa!
    Il Tour è lungo e faticoso, ma arrivare agli Champs-Elysées, soprattutto in maglia gialla, può rendere veramente immortali.
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    2 - UN RICORDO LONTANO...

    Con questa news voglio parlarti degli interessi attivi sui conti correnti.
    Te li ricordi ancora?
    Perché sembra siano ormai destinati a rimanere soltanto, come dice il titolo, un ricordo lontano...
    Eppure, senza andare troppo indietro nel tempo, a fine 2008 la remunerazione riconosciuta dalle banche sulle giacenze depositate nei conti correnti viaggiava in media intorno all'1,8% lordo annuo.
    Un dato che oggi è invece pari allo 0,02%, e che difficilmente tenderà a risalire nei prossimi mesi, nemmeno sulla scia degli ulteriori ritocchi al rialzo dei tassi, annunciati dalle banche centrali per contenere e contrastare l'inflazione.

    Il conto corrente ormai è solamente una costosa e obbligata chiave di accesso ai vari servizi bancari e finanziari che gli istituti di credito offrono, a 360 gradi, a famiglie e imprese.
    Lo strumento, in sostanza, soprattutto con un'inflazione all'8% come quella attuale, meno indicato per mettere al sicuro i propri risparmi.
    Perché, al di là della (non) remunerazione, c'è poi la variabile costi che incide parecchio e ne inficia lo scopo "salvadanaio".
    Canoni e commissioni che, a differenza dei tassi di interesse attivi, continuano ad aumentare e a pesare sulle nostre tasche.
    Secondo l'ultima recente indagine di Altroconsumo, i conti correnti costano in media il 2% in più rispetto allo scorso anno.
    Proprio nei giorni scorsi, un amico e mio storico cliente mi raccontava del suo conto corrente, in essere presso Unicredit, dal non banale costo mensile di 18 €...
    A subire, in particolare, gli aumenti più consistenti sono stati i pensionati e le famiglie (+5 e +4% rispettivamente), sia quando operano online, sia quando si rivolgono allo sportello del proprio istituto.

    Aumenti senz'altro imputabili alla ricerca del profitto da parte delle banche.
    Ma aumenti imputabili anche agli stessi correntisti, che con la loro pigrizia non aiutano a stimolare la concorrenza nel settore.
    In Italia continuano infatti ad esserci molti freni inibitori a divorziare dalla propria banca, anche se qualche segnale in segno contrario inizia ad emergere dai più dinamici correntisti online.
    Come certifica sistematicamente l'autorità di vigilanza, in banca la fedeltà non viene premiata.
    Anzi, i clienti di più lunga data hanno condizioni contrattuali più sfavorevoli rispetto ai nuovi.
    Un'evidenza che, anno dopo anno, continua ad aggravarsi.
    Ormai i conti aperti da più di 10 anni costano più del doppio di quelli aperti nell'ultimo anno.
    Del resto, dove trovano terreno fertile con clienti poco attenti, le banche continuano ad aumentare canoni, oneri fissi e commissioni di vario genere.
    Eppure, da anni, cambiare banca è molto semplice: su richiesta del cliente gli istituti si devono attivare per garantire il trasferimento del conto da una banca all'altra entro 12 giorni.
    Lo sapevi?
    Sembrano invece diminuire i costi per i giovani, sempre più agevolati nell'apertura di un conto corrente da proposte appetibili offerte dalle banche, con l'obiettivo di fidelizzarli nel lungo periodo.

    Nonostante la (non) remunerazione dei conti correnti, i depositi della clientela residente in Italia si attestavano a Giugno a 1.840 miliardi di €.
    In crescita del 3,3% rispetto all'anno precedente.
    Le soluzioni per difendere il potere d'acquisto dei risparmi non possono far leva su logiche di breve termine.
    L'investimento ben diversificato resta l'unica soluzione possibile, con un'accortezza: per ottenere dei risultati apprezzabili serve tempo, e serve esporsi all'incertezza dei mercati finanziari.
    Meglio farlo con l'aiuto di un (bravo) Consulente Finanziario!
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    3 - UN CONTO DA 265 MILIARDI

    Aver costretto Draghi alle dimissioni, è stata la disperata manovra di una classe politica, in gran parte composta da leader e partiti in forte declino, alla ricerca egoistica di una possibile via d'uscita dall'angolo in cui erano finiti.
    Un errore drammatico, le cui conseguenze saranno pagate, come accaduto anche in passato, da tutti gli italiani.
    Perché l'instabilità dei governi, e le ricorrenti cadute di credibilità internazionale dell'Italia costano caro.
    Un costo, pensa, stimato tra il 2012 e il 2021 in circa 265 miliardi di € di interessi pagati dall'Italia in più del necessario, non tanto rispetto al tradizionale benchmark della Germania, ma prendendo come riferimento un paese come la Francia, che pure oggi ha il più alto debito pubblico d'Europa (2.813 miliardi a fine 2021, contro i 2.678 dell'Italia).

    Gli spread di inettitudine della nostra classe politica, e le ricorrenti instabilità di governo, ci sono costati in un solo decennio grosso modo come un intero PNRR.
    Perché lo spread non guarda tanto all'alto rapporto debito/Pil che ci contraddistingue, ma soprattutto alla scarsa credibilità dei nostri politici e governanti, e alla cronica instabilità dei nostri governi.
    Populismo, pressapochismo, incompetenza, sprechi, burocrazia, veti, atteggiamenti antieuropei, governi di corta durata: tutto ciò ha avuto un costo preciso per l'Italia.
    E' la storia a dircelo.

    Guardando al passato, nel 2004 l'Italia pagava un tasso di interesse implicito sul proprio debito pubblico del 4,5%.
    Una percentuale (lo so, difficile da credere...) esattamente identica a quelle sostenute da Germania, Francia e Spagna.
    Le curve dei tassi dei quattro maggiori paesi dell'Eurozona erano all'epoca perfettamente allineate.
    Eppure, quell'anno l'Italia aveva un rapporto debito/Pil (105%) di circa 40 punti più alto di quello della Germania (65,2%) e della Francia (66%), e di circa 60 punti più alto di quello della Spagna (45,4%).
    Ma il governo Berlusconi non si era ancora infilato nel vicolo cieco degli scandali, e nella devastante caduta di credibilità a livello mondiale in cui precipitò nel 2011, nel pieno della crisi del debito greco.

    Dal 2012 in poi, purtroppo, l'Italia ha accumulato e mantenuto un divario enorme in termini di maggiore interesse implicito pagato sul proprio debito pubblico: un'eredità che il nostro paese non sembra riuscire a scrollarsi di dosso, perché non appena qualche governo cerca di recuperare un minimo di immagine e di autorevolezza a livello internazionale, ecco che altri governi (o loro esponenti) subito si sono dimostrati pronti a mandare tutto all'aria, con atteggiamenti antieuropei o antieuro, e a ricacciarci nel tunnel dello spread.
    E, va ricordato, ogni volta che lo spread si impenna, il costo è salatissimo in termini di maggiori interessi sulle emissioni dei titoli di Stato, andando così ad appesantire l'interesse medio sullo stock complessivo del debito.
    Se dal 2012 al 2021 avessimo pagato interessi "francesi" sul nostro debito, il nostro paese avrebbe risparmiato nell'ultimo decennio, come visto, circa 265 miliardi di €, e il nostro debito pubblico alla fine del 2021 sarebbe stato di 2.412 miliardi, con un rapporto debito/Pil pari al 135,4%, anziché del 150,4%.
    Non certo un dettaglio.

    Si apre ora una nuova fase di incertezza.
    L'ennesima per un'Italia duramente provata (non solo) dal Covid-19.
    E l'incertezza, si sa, è sempre stata e sempre sarà il peggior nemico dei mercati finanziari.
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    4 - IL PREGIUDIZIO (O BIAS) DELLO STATUS QUO

    Tanti sono gli inganni che la nostra mente, spesso inconsapevolmente, mette in atto, anche quando si tratta di investimenti e risparmio.
    Sono dei meccanismi primordiali e non razionali, utilissimi per la sopravvivenza quando l'uomo era in balia della natura e viveva nelle caverne, ma molto spesso dannosi al giorno d'oggi, anche quando siamo chiamati a decidere come sia meglio agire per preservare e far fruttare il nostro risparmio. 

    Oggi ti voglio parlare di uno di questi errori cognitivi, definito "bias o pregiudizio dello status quo". 
    Siamo naturalmente portati ad essere dei conservatori, prediligendo la situazione attuale, ben conosciuta, rispetto ad altri scenari possibili.
    Qualsiasi mutamento viene considerato una perdita, e l'ambito finanziario non fa eccezione: la tendenza è quella di voler preservare lo status quo, rifuggendo i cambiamenti.
    Uno dei primi casi documentati di questo bias riguarda le assicurazioni sulle auto negli Stati Uniti.
    All’inizio degli anni ’90, in New Jersey e in Pennsylvania, fu modificata la legislazione sulle assicurazioni, prevedendo una polizza base molto costosa, che consentiva però di citare in giudizio l’assicuratore, e una, al contrario, poco costosa, che consentiva di farlo solo in modo limitato. 
    Nel New Jersey fu posta di default l’opzione più economica, e l'80% dei cittadini rimase su quella. 
    In Pennsylvania, al contrario, l’opzione predefinita era quella più completa e più costosa, e il 75% degli assicurati la tenne.
    Effetti simili sono stati riscontrati nel campo dei piani pensionistici, delle opzioni della privacy su internet, e della scelta se donare i propri organi (dove, come potrai immaginare, la scelta di impostare come default la donazione può contribuire a salvare migliaia di vite umane).

    Non sempre, quindi, il bias dello status quo produce effetti negativi: dipende tutto da come viene impostato a monte, perché, come vedi, la nostra mente tende a farsi influenzare alquanto facilmentee questo accade anche quando è ormai evidente che rimanere nello status quo sia dannoso e controproducente. 
    Quando scegliamo, infatti, tendiamo maggiormente a valutare le possibili perdite piuttosto che i possibili guadagni
    Preferiamo preservare quanto abbiamo, piuttosto che ricercare un potenziale miglioramento della nostra situazione, perchè la nostra condizione attuale è fonte di un equilibrio, ancorchè non perfetto, che facciamo fatica a superare.
    Per farlo serve energia, e occorre vincere la pigrizia. 
    Questo comportamento limita però le nostre scelte, e il nostro possibile benessere futuro.

    Un esempio pratico in ambito finanziario, è dato da quei risparmiatori, abituati per anni ad investire in titoli di stato o in conti deposito, che non hanno saputo accettare il cambiamento profondo avvenuto nel mondo degli investimenti a partire dal 2008-2009, con l'avvento dei tassi a zero o negativi, i quali si sono protratti per oltre 10 anni fino ai nostri giorni.
    L'immobilismo nell'attesa di tassi migliori li ha portati spesso a non investire, e a perdere così tutti i potenziali guadagni di oltre un decennio, se solo avessero saputo aprirsi a diverse opportunità e ad altre soluzioni d'investimento.

    E' importante allora "accendere" sempre la nostra mente e riflettere, per non cadere vittime del marketing o per non rimanere intrappolati in scelte poco proficue.
    Questo vale in tutti i campi della vita, dal piano telefonico alle bollette, finanche al lavoro, agli affetti e alla gestione del risparmio.
    Per l'ultimo punto io sono, come sempre, a tua disposizione.
    Anche eventualmente per analizzare assieme gli investimenti che già hai in essere, così da aiutarti ad uscire, se necessario, dall'immobilismo.
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    5 - QUANDO I FONDI SUONANO IL ROCK...

    Nessun dubbio: il business della gestione delle royalty musicali va a tempo di rock.
    E così, mentre nell'ultimo anno e mezzo alcuni mostri sacri della musica internazionale hanno messo in vendita i rispettivi cataloghi a colpi di centinaia di milioni di dollari, i campioni mondiali del private equity, fondi come Blackstone, Apollo, Kkr, con lo scopo di mettere a reddito gli oltre 900 miliardi di capitali affidati dai loro clienti, ci si sono buttati a capofitto per sfruttarne il crescente flusso di ricavi.
    Andamento anticiclico, reso evidente dal lungo periodo di lockdown pandemico.

    Per 7 anni consecutivi, i ricavi nel settore della musica registrata sono aumentati in continuazione.
    Soltanto nel 2021, seconda la Federazione Internazionale dell'Industria Fonografica, sarebbero cresciuti del 18,5%, arrivando a toccare quota 25,9 miliardi di dollari.
    L'ultimo colpo messo a segno da Blackstone in partnership con Hipgnosis (fondo quotato a Londra da Marzo 2020, partecipato persino dalla Chiesa d'Inghilterra e quindi, in ultimo, dalla regina Elisabetta), è stato quello di fine Maggio con la popstar americana Justin Timberlake: 100 milioni di $ per mettere le mani sul catalogo del cantante-attore, e gestirne così i diritti nei confronti delle varie Spotify, Deezer, Apple e Amazon Music.
    Il deal è stato preceduto da quello a Marzo sulla lunga lista dei dischi di Leonard Cohen (un closing dal valore non noto), e a Gennaio da quello sulle canzoni di Neil Young (transazione, in questo caso, da 150 milioni di $).
    Per il resto, anche grazie a relazioni consolidate nel tempo fra cantautore ed etichetta, i cataloghi del gotha dei grandi musicisti internazionali se li sono spartiti le principali case mondiali: Sony Music, Universal, Warner e Bmg.
    E da Dicembre 2020 è stato un crescendo...

    Ha aperto le danze Bob Dylan: i suoi testi sono stati acquistati da Universal Music, gigante della discografia mondiale controllato da Vivendi e partecipato anche dai cinesi di Tencent, per oltre 300 milioni di dollari.
    Il "Menestrello del rock" ha fatto poi il bis a Gennaio di quest'anno, cedendo questa volta a Sony Music il suo catalogo musicale per una cifra pari a 200 milioni.
    Fra Maggio e Dicembre dello scorso anno, la stessa Sony è riuscita a mettere a segno due autentici colpi di mercato: ha prima inserito in portafoglio i diritti su 60 anni di musica di Paul Simon staccando un assegno di 250 milioni, per poi, a fine Dicembre, siglare lo stesso contratto con il grandissimo Bruce Springsteen.
    Proprio il deal con il "Boss" detiene ad oggi il record per il più alto valore di vendita di un songbook: 550 milioni di $.
    A Settembre dello scorso anno, un altro colpo lo ha piazzato, dopo una lunga trattativa con gli eredi, la Warner Music per i diritti di centinaia di canzoni del "Duca Bianco" David Bowie, costati la bellezza di 250 milioni.

    Il catalogo musicale di Tina Turner è stato invece acquistato per circa 300 milioni dalla tedesca Bertelsmann (Bmg) a Ottobre dello scorso anno.
    E a Febbraio di quest'anno, si è ripetuta la Universal con il prestigioso songbook del cantante britannico Sting (circa 300 milioni).
    Ora i titoli di coda: la stessa Warner Music sta ingaggiando un vero e proprio braccio di ferro con Bmg (sostenuta dal fondo di private equity Kkr), per aggiudicarsi testi e canzoni dei Pink Floyd.
    La band di Roger Waters e David Gilmour potrebbe strappare addirittura una cifra maggiore dei 550 milioni andati a Springsteen, e passare così, ancora una volta, alla storia.

    Mercato in piena bolla?
    Verrebbe da chiedersi...
    In realtà, grazie anche all'enorme successo delle piattaforme di streaming musicale, il modello di business della discografia sta cambiando radicalmente, dando nuova linfa al comparto.
    E' stata vinta negli anni la sfida alla pirateria, e il business lo fa ora la gestione delle royalty, che rappresenta poi il grande costo sopportato dalle varie piattaforme distributive come Spotify.
    Ecco che testi e musiche vengono pagate a peso d'oro.
    Un'opportunità colta al volo dai cantautori, che ne hanno approfittato per cavalcare l'onda dopo anni di musica gratis sul web pre-avvento dello streaming, e dopo due anni di pandemia che hanno bloccato tour e concerti.
    Certo, per i grandi vecchi della musica, come Neil Young o Bruce Springsteen, ha contato anche il fattore età, monetizzando per conto dei propri eredi decenni di produzione artistica.

    Chi fa private equity (e come ben saprai, lo facciamo anche in Azimut...) cerca flussi di cassa e ritorni visibili nel lungo periodo.
    Le royalty da catalogo permettono subito di realizzare l'investimento.
    I fondi decidono così di pagare, in maniera (forse in alcuni casi) anche generosa, ciò che fino ad ora è stato composto, scommettendo in ottica futura.
    Sarà come sempre, anche in questo caso, il tempo a dire poi se la scommessa è stata vinta oppure no. 
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    6 - CRIPTO(S)VALUTE

    Secondo una legge empirica, la moneta cattiva dovrebbe cacciare quella buona, in una sorta di istinto di sopravvivenza della ricchezza.
    Ma cosa accade quando la moneta non esiste affatto, come nel caso delle criptovalute?
    Chi gioca veramente il ruolo di moneta buona?

    E' arrivato il momento di chiederselo, vista la concentrazione di eventi negativi che si stanno ormai accavallando uno sull'altro sui Bitcoin, Ethereum, Terra Luna, e su tutto il complesso ecosistema nato intorno ad esse.
    Binance, una delle più importanti borse delle criptomonete, ha recentemente bloccato il ritiro del contante ai clienti che avevano Bicoin.
    E la piattaforma Celsius ha congelato anche i rimborsi.
    Un'azione a cui Stati e banche ricorrono solamente in casi di estrema gravità: accadde infatti nel Dicembre del 2001 con il crack dello Stato argentino.
    Lunghe file di persone si riversarono allora nelle strade, davanti alle filiali bancarie e ai loro bancomat, per ritirare all'impazzata i propri pesos, senza poi riuscirci.
    La stessa paura fu poi anche alla base del salvataggio delle banche da parte del governo americano dopo il crack di Lehman, quando le persone iniziavano a mettere in dubbio la solvibilità dell'intero sistema.
    Il blocco della liquidità non è mai un bel segnale.

    Parallelamente, quasi come si fossero messe d'accordo, Crypto (che aveva investito su LeBron James per uno spot pubblicitario durante il SuperBowl di Febbraio) e CoinBase hanno annunciato un taglio dei dipendenti.
    Segnali e indizi che potrebbero essere usati per mettere insieme qualche prova sulla tenuta del sistema.
    Il valore del Bitcoin è passato allora dai 68mila $ dello scorso Novembre ai circa 24mila attuali.
    Per completare il quadro, nelle ultime settimane si è azzerato anche il valore di Terra Luna, un token appartenente alle cosiddette stablecoin: un sistema di ancoraggio delle criptomonete al dollaro.
    Solo che quando si è scoperto ciò che oggettivamente non era mai stato nascosto, cioè che il sottostante di questo ancoraggio era il nulla (un pezzetto di Luna digitale), il valore è crollato da sopra i 100 $ a zero.
    -100%!

    Ora è vero che buona parte dell'economia, a partire da quella americana, è in difficoltà.
    Le azioni di molte aziende hanno bruciato negli ultimi mesi delle quote da brividi.
    Lo stesso Elon Musk ha lanciato, con la sua solita delicatezza, l'allarme sull'occupazione, peraltro in un momento in cui l'inflazione sta salendo ai massimi degli ultimi quarant'anni, e i tassi sono bassi.
    Ma il tema è, appunto, se è il caso di considerare il mondo delle criptovalute al pari di quello delle monete emesse dagli stati, oppure no.
    Quello che stanno subendo Bitcoin e affini, è un crollo del prezzo o una svalutazione?
    Siamo pertanto di fronte a delle cripto(s)valute?

    Il fenomeno della moneta cattiva risale all'epoca medievale, quando la lega della valuta coniata in circolazione era dubbia, e chi era sicuro di avere monete d'oro di buona qualità preferiva tenersele nel cassetto.
    Ma cosa accade quando la moneta non esiste proprio?
    O meglio, quando il sottostante della moneta è il nulla?
    Con l'abbandono del Gold standard (prevedeva un preciso rapporto tra valuta in circolazione e oro immagazzinato) per la prima volta nel 1914, per permettere ai paesi di stampare moneta per finanziare la guerra, tutte le banconote e le normali valute si poggiano su due principi fondamentali: la fiducia nel sistema e la consapevolezza delle normative che difendono il risparmio delle persone.
    La banca in cui depositiamo la nostra moneta, ormai intangibile, deve rispettare rigidi parametri patrimoniali e accantonare fondi in garanzia dei depositi.
    Quando viene meno la prima componente, la fiducia sul reale valore dell'economia sottostante, della solvibilità di uno stato o del reperimento dei beni e servizi, si determina la svalutazione interna (inflazione) o esterna (cambio tra monete).

    Se le criptovalute sono, come vorrebbe il nome stesso, fondamentalmente delle monete, hanno l'eccezionalità di basarsi su una generale sfiducia nel sistema e nella regolamentazione.
    Sono nate per contrapposizione alle regole delle banche centrali, e sono basate sulla decentralizzazione e su una generale fiducia cieca nei confronti degli algoritmi.
    Se sono monete, dunque, il crollo è causato da una sfiducia nei confronti della sfiducia.
    Una sorta di sfiducia al quadrato.
    La fede nel denaro digitale vacilla...
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    7 - L'ECONOMIA DEGLI AEREI DELL'ESTATE

    Nel 2021, Airbus e Boeing hanno consegnato aerei nuovi incassando qualcosa come oltre 53 miliardi di $.
    Quanto il prodotto interno lordo annuale del Turkmenistan o dell'Azerbaigian.
    Nello stesso periodo hanno registrato nuovi ordini che, ad oggi, hanno un valore complessivo di quasi 63 miliardi.
    Un importo totale simile al Pil della Croazia.

    Nella prima estate post Covid, milioni di italiani ed europei già si sono imbarcati, o sono prossimi a farlo, per le vacanze estive.
    Scioperi e disservizi vari permettendo.
    Ma cosa passerà sopra le nostre teste?
    Mai come quest'anno, di tutto e di più.
    Dal primo Luglio al 30 Settembre, sono previsti oltre 1,7 milioni di decolli dal suolo europeo verso destinazioni continentali ed extra.
    273 milioni di posti sono stati messi in vendita.
    Oltre la metà di questi sono sugli Airbus A319-320-321, e i Boeing 737.
    Sono questi gli esemplari ad essere maggiormente utilizzati in Europa e nel resto del mondo.

    Secondo il database di Ch-Aviation, le compagnie possono contare su di un totale di 28.576 velivoli.
    Di questi, 22.810 sono in servizio, mentre gli altri 5.766 risultano parcheggiati, ma in gran parte torneranno a volare, in particolare qui in Agosto, quando è previsto il picco degli spostamenti delle persone.
    I modelli sono svariati, ma si possono tendenzialmente suddividere in 4 categorie.
    I regional turboprop, i più piccoli che coprono distanze nazionali o tra località vicine anche in paesi diversi, e hanno i motori a turboelica.
    Fanno parte di questo blocco gli italo-francesi Atr, o i canadesi Bombardier Q400.
    Ci sono poi i regional jet come i Bombardier Crj, impiegati anche nelle tratte con pochi volumi giornalieri.
    Sullo stesso segmento di mercato si collocano i brasiliani Embraer (nella flotta, ad esempio, di Air Dolomiti, compagnia italiana del gruppo Lufthansa).
    C'è poi l'Airbus A220, uno dei punti di forza del colosso europeo dell'aerospazio che piace molto per i suoi finestrini mediamente più grandi, e per il costo operativo inferiore.
    E' questo un esemplare ordinato anche dall'italiana Ita Airways.
    Si passa quindi al blocco di jet più utilizzati, i narrowbody: quella che si identifica come la famiglia degli Airbus A320 e i Boeing 737.
    Sono questi gli aeromobili nei quali ti imbarcherai quasi sempre per raggiungere il Sud Italia, la Sicilia e la Sardegna, la Spagna e il Portogallo, la Grecia e la Croazia.
    Non solo nelle versioni classiche, ma anche in quelle più moderne e meno inquinanti.
    Questi modelli hanno un numero variabile di sedili, ma tendenzialmente le low cost ne contano al massimo 186, mentre i tradizionali vettori sono meno densificati, anche se tendono sempre più verso il modello a basso costo.
    Le rotte intercontinentali sono però ancora in mano ai cosiddetti widebody, aerei a doppio corridoio utilizzati per coprire le distanze più lunghe possibili, che richiedono anche 17-18 ore di servizi non stop.
    Si va allora dai Boeing 767 e 777, ai più moderni 787 Dreamliner, dagli Airbus A330 agli A350, fino ai giganti dei cieli, i Boeing 747 (70 metri di aereo, capace di oltre 1.100 km orari di velocità massima, e con 660 sedili a bordo) e gli A380 a due piani (un aereo lungo 72 metri, capace di raggiungere i 1.185 km l'ora, e con ben 868 sedili a bordo).
    Bestioni che stanno però progressivamente sparendo perché costano molto, richiedono molto kerosene (hanno 4 motori), e, vista la stazza, serve un bel pò per riempirli.
    I Boeing 777 e 787, o gli Airbus A330 e A350, si trovano queste settimane soprattutto sulle rotte tra Europa e America, mentre gli A380 sono l'aereo di punta di Emirates, e copre i collegamenti con Dubai e con New York.

    Ma quanto costano, in conclusione, questi aerei?
    Tanto, se l'acquisto riguarda qualche sporadico esemplare.
    Molto meno, invece, se la commessa è significativa e l'acquirente solido: gli sconti possono infatti toccare anche il 60-70% sul prezzo di listino.
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    Non mi resta, a questo punto, che augurarti un sereno Ferragosto.
    Salvo sorprese e cause di forza maggiore, l'appuntamento con la mia 7in7 è per Venerdì 26 Agosto.
    Un caro saluto!

    Davide