Il forte progresso degli ultimi anni, ci ha, per certi versi, convinti di vivere in un mondo sempre più immateriale.
Ma gli eventi di quest'ultimo periodo storico ci stanno giustamente facendo ricredere di questo.
Il cambiamento climatico è sotto gli occhi di tutti, e ci fa ben comprendere quanto siamo minuscoli nei confronti della terra, che, a sua volta, sta a suo modo rispondendo a decenni di abusi e soprusi, fatti in nome dello sviluppo, del benessere e
del progresso stesso.
Storditi dalla leggerezza del digitale, affrontiamo così disorientati un pericoloso revival del Novecento.
Al secolo scorso siamo tornati anche nel linguaggio dell'emergenza (sanzioni, embargo, razionamento, autarchia, armi convenzionali, rischio nucleare...) e nella riscoperta dell'importanza della geografia, resa apparentemente marginale dalla globalizzazione.
Siamo passati dall'idea che il sogno del teletrasporto possa avverarsi in poco tempo, alla durezza fisica della crisi dei noli, il blocco di Suez, l'ingorgo davanti ai porti di Shanghai e della California del Sud.
Mentre in ambito finanziario assistiamo al brusco ridimensionamento dei prezzi dei titoli tecnologici, nel mondo reale i prezzi delle materie prime sono letteralmente esplosi.
Grano, mais e olio di semi di girasole sono stoccati in particolare nei porti ucraini, minati per impedire sbarchi di truppe russe.
Il rischio di carestie, soprattutto in alcuni paesi africani, agita lo spettro di nuove ondate migratorie verso l'Unione europea.
Nel secolo scorso l'Unione sovietica è stata a lungo il più grande importatore di cereali, mentre la Cina di fatto quasi non esisteva sui mercati internazionali.
La liberalizzazione degli scambi e la finanziarizzazione dei mercati, negli anni Novanta, hanno ribaltato le posizioni.
Paesi come Russia, Ucraina, Kazakistan, Romania e Bulgaria, sono diventati grandi esportatori, e la Cina il più grande importatore di prodotti agricoli (soia in particolare).
Fin dai mesi scorsi, sui mercati agricoli (e non solo), si sono registrati grandissimi acquisti di Pechino, apparentemente non giustificati da una ripresa economica ancora appesantita dal Covid.
E Pechino compra anche il petrolio russo (chiamato in codice Ural) a prezzi scontati di circa 30 dollari al barile, per rivenderlo poi a Taiwan, alla Corea del Sud e al Giappone.
Quella che stiamo vivendo sui mercati delle materie prime non è una crisi congiunturale.
Il punto è questo.
C'è ancora chi si illude che dal picco dell'inflazione si possa rientrare abbastanza agevolmente.
L'accelerazione che si vorrebbe imprimere alla transizione energetica, favorisce indubbiamente gli investimenti nell'idroelettrico, nel solare e nell'eolico.
Ma non va dimenticato che queste fonti di energia pulita necessitano di materie prime rare, di cui praticamente l'occidente (salvo un pò gli Stati Uniti, il Canada e l'Australia) non estrae nulla.
La nuova debolezza strategica è tutta qui.
L'estrazione, lo sviluppo e il controllo dei Ree (Rare earth elements) sono stati, fino alla metà degli anni Sessanta, totale dominio degli Stati Uniti.
Grazie soprattutto alla miniera di Mountain Pass, nel sud-est della California, che oggi paradossalmente ha quote di interessi cinesi.
Con la crescita dell'elettronica di consumo e con la globalizzazione, gli equilibri sono stati rivoluzionati al punto che, tra il 2013 e il 2017, la Cina ha "prodotto" l'83% delle materie prime rare, seguita dall'Australia con il 9%.
Le esportazioni cinesi sono in seguito diminuite per soddisfare la domanda interna, lasciando spazio ad altri attori come Vietnam, Russia e Brasile.
Parliamo, tanto per fare qualche esempio, di platino, palladio, rodio, cobalto, berillio, borato, afnio, niobio, tantalio.
Sconosciuti al grande pubblico, ma indispensabili nella quotidianità: solo nel nostro telefonino ce ne sono circa 40.
Senza neodimio, praseodimio e terbio, non vedremmo funzionare i parchi eolici.
Senza europio, cerio e disprosio, non vedremmo circolare le auto elettriche.
La domanda di Ree sta crescendo a ritmi esponenziali, mettendo così a nudo un'ulteriore debolezza strategica dell'Occidente.
Le opinioni pubbliche dei paesi democratici spingono giustamente per accelerare la transizione verde, che rischia però di rafforzare le posizioni monopolistiche di cinesi e russi in alcuni mercati strategici.
Un amaro paradosso dal quale sembra quasi impossibile uscire, perché le terre rare sono anche un'efficace arma di politica internazionale.
Nella disputa territoriale tra Tokio e Pechino sulla sovranità delle isole Senkaku, nel mar cinese meridionale, ha pesato, ad esempio, molto la minaccia di un embargo (mai dichiarato ufficialmente) sui materiali rari di cui l'industria nipponica ha
particolare necessità.
Un antipasto di quello che potrebbe accadere, su scala più ampia, in futuro.