Menu
www.davideberto.it2024-10-11
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    Se vuoi investire e gestire come si deve il tuo patrimonio in ambito finanziario, devi sapere che il 96% del valore delle aziende va a generarsi dopo almeno 10 anni.

    Spesso mi capita però di confrontarmi con queste 2 tipologie di "investitori":
    - Investitore 1: io investo nel breve termine, faccio trading e market timing;
    - Investitore 2: io investo solo nelle aziende più sicure, quelle che storicamente sono sempre andate bene (specchietto retrovisore).
    Occorrerebbe invece ragionare da veri investitori: per me la cosa è molto semplice, diversifico i miei risparmi comprando il mercato globale, un pò di manutenzione qua e là quando ci sono degli eccessi in un senso o nell'altro, ma nulla di particolare...

    Vedi, è molto complicato sapere in anticipo quali saranno le azioni del futuro.
    15 anni fa nessuno, o quasi, avrebbe scommesso su Amazon, Apple, Tesla...
    Se non sei allora Warren Buffett, nonostante tu creda di esserlo solo per il fatto che negli ultimi 10 anni i mercati sono saliti quasi senza soluzione di continuità, sappi che non sarà sempre così, e il risveglio potrebbe essere doloroso.

    Esci allora dal gregge!
    Investi, diversifica, aspetta!!

    Ti auguro una buona lettura.
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    1 - DATI E NUMERI SULL'ECONOMIA RUSSA

    Dopo l'illecita invasione dell'Ucraina, che ha inflitto danni indicibili a milioni di persone, la Russia è ora il paese più sanzionato al mondo.
    Sono state introdotte più di 2.000 sanzioni occidentali contro un gruppo di individui, società e istituzioni.
    Sono state inoltre implementate misure per escludere la Russia dai sistemi internazionali di pagamento, dall'uso delle principali valute di riserva, e dall'accesso a tecnologie chiave come i semiconduttori.
    Sembra inevitabile che la Russia ne subirà una profonda recessione, con un sostenuto deprezzamento della sua valuta, il rublo.
    In molti già paragonano il futuro della Russia con quanto accaduto a suo tempo con l'Iran.
    Le sanzioni possono anche avere degli effetti contrastanti, ma lasciano cicatrici profonde e durature.
    In poche settimane la reputazione dell'intero paese è stata distrutta agli occhi del mondo, e potrebbe non riprendersi più.

    Detto questo, proviamo ad analizzare più da vicino i freddi numeri, partendo da una domanda: ma davvero si può considerare la Russia una potenza economica?
    Come dimensioni, stiamo parlando del paese più grande al mondo, tanto che ha una superficie pari a 1/6 delle terre emerse, circa 56 volte l'Italia.
    Pensa che la Russia è attraversata da ben 11 fusi orari, contro i 5 della Cina e i 4 degli USA.
    Nonostante questa vastità geografica, la Russia ha solo 146 milioni di abitanti, e si posiziona al 9° posto dopo la Nigeria e prima del Messico.
    E' di conseguenza agli ultimissimi posti al mondo (181° su 194 paesi) per densità abitativa, con appena 8,4 abitanti per chilometro quadrato.
    Quanto alla ricchezza prodotta, il Pil russo nel 2021 si è attestato a 1.439 miliardi di €, di molto inferiore rispetto ai 1.781 miliardi del nostro paese.
    Il Pil pro capite è di 27.900 $, e pone la Russia addirittura al 72° posto al mondo.
    A titolo comparativo, il Pil pro capite italiano è di 38.200 $.
    Al di là dei semplici numeri statistici, nella realtà la gran parte della ricchezza prodotta finisce nelle mani degli oligarchi al potere, degli amministratori locali e nazionali, dell'esercito e di altri pochi "amici", e quindi la maggior parte della popolazione vive con modeste disponibilità economiche.

    Ciò stride con la grande ricchezza naturale della Russia, prima al mondo per riserve di gas, sesta per il petrolio, e generosa anche di nichel, platino, oro e molte altre materie prime. 
    Gas e petrolio sono la prima fonte di incassi per il governo russo, cosa che può diventare un tallone d'Achille se l'occidente ingranasse davvero la marcia sulla transizione ecologica. 
    Al momento questo scenario è ancora lontano dal realizzarsi: solo il nostro Paese importa dalla Russia 28,7 miliardi di metri cubi annui di gas, quasi il doppio rispetto ai 16,5 miliardi importati dalla Cina.
    Se ci proiettiamo avanti di una ventina d'anni, quando auspicabilmente sapremo fare a meno dei combustibili fossili, la Russia non avrà le potenzialità per rivestire un ruolo chiave nelle economie globali.
    Oltre alle materie prime, non ha infatti capacità tecnologiche, scientifiche e innovative tali da fare la differenza. 
    Sicuramente oggi riveste però un ruolo fondamentale per il nostro bilancio energetico, visto che non possiamo certo affrancarci dal ricatto russo con uno schiocco di dita: dipendiamo innegabilmente da loro per far funzionare il nostro paese, e di questo non possiamo che fare "mea culpa". 
    Sapevamo di correre rischi, in tal senso, fin dall'invasione della Cecenia iniziata nel 1999; ancor più da quella della Georgia del 2008, e soprattutto dall'annessione della Crimea del 2014.
    E' da tempo, insomma, che Putin mira a ripristinare i fasti dell'ex impero sovietico.
    La politica italiana e gran parte dei nostri connazionali ha però finto di non vedere, schierandosi contro i rigassificatori, i termovalorizzatori, il Tap, il nucleare e le agevolazioni verso le energie rinnovabili, che costano in bolletta, ma che ci avrebbero permesso di allentare il cordone ombelicale che ci lega energeticamente alla Russia.
    Abbiamo invece preferito crogiolarci nel forte ribasso dei prezzi di gas e petrolio iniziati nel 2014, ed oggi paghiamo caro il nostro immobilismo e l'assenza di pianificazione e larghe vedute.
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    2 - INVESTIMENTI IN RUBLI: CHE SUCCEDE ORA?

    Prima del 24 Febbraio, data di inizio dell'invasione Ucraina, circolavano al di fuori dei confini russi circa 20 dei 90 miliardi di dollari totali di debito sovrano della Russia.
    Tanti, ma non tantissimi, se pensiamo che sono potenzialmente distribuiti tra tutti i paesi occidentali. 
    Per fare un confronto, basta pensare che al tempo del crac dell'Argentina nel 2001, solo in Italia andarono persi 14 miliardi di euro di Tango Bond.
    L'equivalente di una manovra finanziaria andata in fumo in un week-end.
    Le proporzioni sono ora inferiori, ma innegabilmente diversi risparmiatori italiani si sono lanciati sui titoli obbligazionari in valuta russa allettati dagli elevati tassi d'interesse offerti, assumendosi così un doppio importante rischio: quello sul cambio euro-rublo, e quello sulla solvibilità dell'emittente.
    Per ora il default dello stato russo è stato scongiurato, ma le perdite sul cambio valutario viaggiano di giorno in giorno tra il 30 e il 40%.

    Sui mercati borsistici italiani circolano emissioni obbligazionarie in valuta russa per circa 250 miliardi di rubli: più o meno 2,5 miliardi di euro ai poco stabili cambi attuali. 
    Si tratta, per lo più, di emissioni proposte dalla Bei (Banca Europea degli Investimenti), dalla Banca Mondiale, e dalla Ibrd (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo).
    Offrivano tassi d'interesse anche dell'8% annuo, oltre che una tassazione ridotta al 12,5% sui guadagni, in quanto emissioni sovranazionali. 
    Nel mercato borsistico europeo circola però anche debito privato, emesso da aziende russe per finanziarsi.
    35 miliardi di euro in totale, suddivisi tra Gazprom, Rosneft, Lukoil e Sberbank.
    I risparmiatori italiani si sono sentiti nel tempo rassicurati dalla solidità degli emittenti e dalle buone relazioni di un tempo tra Italia e Russia.
    Non sono pochi quelli che si sono avventurati in questi titoli per far fronte alla penuria di rendimenti del mondo obbligazionario occidentale.

    Calcolare la perdita di questi investimenti, senza poi considerare un potenziale default, è un disastro già oggi.
    Il cambio negli ultimi anni, quando la maggior parte di queste obbligazioni sono state piazzate, è sempre stato di un euro per 70 rubli circa.
    Con la guerra il cambio è schizzato anche a 125.
    Vuol dire che se avevo 125 rubli in bond, al momento dell'acquisto questi valevano 1,8 euro.
    Nei giorni peggiori hanno toccato un euro, nei giorni migliori 1,2.
    Questo crollo nel cambio si riflette ovviamente sia nel valore del bond, sia nell'ammontare delle cedole erogate, senza contare che i titoli non sono attualmente vendibili, per ottemperare alle sanzioni internazionali.
    Le compravendite sono state congelate, e tutto quello che si può fare è lasciarli nel cassetto, pregare e sperare.

    Periodicamente ci sono scadenze che gli emittenti obbligazionari devono rispettare; se non lo fanno, parte un conto alla rovescia che in 30 giorni conduce al default del debitore.
    Finora la Russia ha onorato i pagamenti in agenda, a partire dai 117 milioni di dollari di cedole che scadevano lo scorso 16 Marzo.
    L'ipotesi di un default non è comunque campata in aria: la Russia lo ha già dichiarato nel 1998, ed è per questo che oggi il suo debito pubblico è relativamente basso in confronto al Pil.
    La storia dovrebbe allora insegnare, mentre il mercato dovrebbe ricordarsene a vita, evitando di prestare ancora soldi a chi non ha saputo assolvere ai suoi doveri di rimborso.
    Anche perché i debiti funzionano come il domino: se non paga lo Stato, poi non pagano le società, a partire da quelle a partecipazione statale.
    A quel punto, con la moneta locale che si svaluta sempre più, anche se il risparmiatore ha comprato un'emissione della Bei o della Banca Mondiale, gli rimarrà comunque in mano poco più che carta straccia.
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    3 - L'ALIBI DEL LUNGO TERMINE

    Molte persone pensano che dietro al "lungo termine" ci sia un alibi.
    Che rimanere investiti per il maggior tempo possibile sia il rifugio di quei consulenti che, non sapendo destreggiarsi sui mercati, non conoscono altra strada che questa.
    Può anche darsi che per qualcuno sia effettivamente così, non lo so e di certo non voglio generalizzare, ma posso dire che cosa c'è per me, dietro al lungo periodo.
    Non c'è alcun alibi e non c'è mai stato.
    Sarebbe troppo logorante se così fosse: gestire la semplice aspettativa che le cose migliorino, magari in quelle fasi in cui i mercati sbandano, non mi è mai parsa una cosa intelligente.
    Per me dietro al lungo periodo c'è, molto semplicemente, un progetto che vorrei si realizzasse.
    C'è un qualcosa che considero importante, e che per essere raggiunto richiede tempo e denaro.

    Non è sempre stato così.
    Una volta, il poco che potevo investire era semplicemente una somma da cui mi aspettavo di ottenere qualche euro in più di quanto ci avevo messo.
    Tutto è poi cambiato nel momento in cui ho compreso e sposato la logica definita del "goal based", con un reale obiettivo dietro a quella fetta di risparmio accantonata.
    E non è affatto retorico e fumoso, come pensano in tanti.
    E' tutto molto concreto, reale, tangibile, a patto che ai propri obiettivi uno ci pensi.
    E' esattamente questo che fa la differenza quando anch'io investo: quando l'emotività mi sale (sì, perché l'emotività prende anche me...), penso a PERCHE' sto investendo.
    Non IN CHE COSA sto investendo.
    E quando mi do la risposta, capisco che il posto dove ho messo i miei risparmi è il posto migliore per raggiungere, nel tempo stabilito, i miei obiettivi.
    Gli studi di Giulio.
    Il pilastro integrativo per integrare la miseria che riceverò dallo Stato una volta in pensione.
    L'accantonamento per poter, un giorno, permettermi magari di lavorare meno, anche prima dell'età pensionabile.
    E tante altre cose che riguardano me e la mia famiglia.
    Tutti progetti con una scadenza piuttosto lontana, se avrò, come spero, la fortuna di poterli raggiungere.
    Tutti progetti per i quali l'ultima cosa che mi domando è se valga oggi la pena di rimanere investiti, o uscire e temporeggiare.

    Non è questione di giusto o sbagliato.
    E' questione di coerenza con i traguardi che voglio tagliare.

    Poi, per una piccola parte, mi diverto a vedere che cosa riesco a combinare nel comprare e vendere sulla base degli umori miei e di quelli del mercato.
    Ripeto, per una piccola parte.
    Ma questi spiccioli fanno parte di un gioco, il resto è roba seria.
    Su cui non si scherza.
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    4 - SEMPRE MENO ATTRAENTI

    L'Italia e tutta l'Europa stanno pagando a caro prezzo l'assenza di un mercato unificato dei capitali
    Le aziende scelgono così di quotarsi altrove, per avere a disposizione risorse maggiori a costi inferiori, trovando inoltre regole di governance più favorevoli.
    La babele normativa europea ha assunto proporzioni monstre in Italia, con un tessuto normativo dai mille colori dove ognuno sceglie ciò che gli conviene di più.
    Ecco allora che 1/4 delle società quotate in Italia è "straniero", ovvero formato da aziende italiane con sede in Olanda e in Lussemburgo, di fatto sottratte alla disciplina interna.
    Se escludiamo le banche, il listino è addirittura per il 40% "straniero". 
    Qualche nome?
    Stellantis, Mediaset, Campari, Tenaris, Cementir... 
    Poi c'è Ariston, protagonista della più grande Ipo dello scorso anno (3,5 miliardi di capitalizzazione), che ha spostato la sede in Olanda subito dopo essersi quotata.
    La moda italiana è, ad esempio, tutta fuori: Prada è quotata ad Hong Kong, Zegna a New York. 
    Ma la scelta dell'esclusiva quotazione all'estero è stata fatta recentemente anche da Stevanato, gruppo padovano leader mondiale del packaging farmaceutico, che ha portato a Wall Street lo scorso Luglio i suoi 6,5 miliardi di capitalizzazione di borsa. 

    Tutto ciò è lampante nei dati sulla raccolta effettuata nel 2020 e 2021, in termini di nuove quotazioni (Ipo - Initial public offering) e aumenti di capitale.
    In questi due anni gli Stati Uniti hanno raccolto ben 850 miliardi di dollari, la Cina 480, e l'Unione Europea soltanto 200.
    E la nostra Italia?
    A malapena 6 miliardi.
    1/10 della Germania, 1/5 della Francia.
    Ultima tra gli ultimi.

    Poco da fare: i capitali freschi del mondo non sono attratti dall'Europa, ancor meno dal nostro bel paese, anche se fin dagli anni '90 sono state aggiornate le regole sulla Borsa ed il mercato dei capitali, con lo scopo di far crescere il rapporto tra capitalizzazione di Borsa e PIL del paese.
    Un rapporto che rappresenta un indice di maturità del sistema finanziario.
    Nel 1990 questo rapporto in Italia era al 14%.
    Raggiunse nel 2000, anche in seguito alle privatizzazioni, il 68% avvicinandosi a quello dei paesi più avanzati, ma negli ultimi 20 anni ha subito un tracollo, attestandosi oggi al 37%.
    Le aziende italiane sono inoltre restie a mettere in Borsa il loro capitale: mediamente la quota di flottante, ovvero del capitale quotato di ogni azienda che risulta liberamente a disposizione degli azionisti, è inferiore al 60%.
    La percentuale più bassa in Europa. 
    Collezioniamo record negativi uno dopo l'altro, ed assistiamo, distratti e rassegnati, alla decadenza del mercato finanziario italiano, che conta sempre meno a livello mondiale.
    I numeri non mentono, e sono impietosi: in Borsa Italiana è rappresentato a malapena l'1% di tutte le aziende quotate nel mondo.
    Servirebbe una coordinata azione europea per dare un impulso di rinnovamento al Vecchio Continente, nonché una precisa volontà politica di invertire la rotta del declino finanziario italiano.
    Purtroppo però, anche in quest'ambito, manca una visione coesa, lungimirante e di lungo periodo.
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    5 - BENE A CHI VUOI BENE

    La maggior parte delle persone è ben consapevole che la pensione sarà un problema serio per le giovani generazioni.
    Nonostante questo, sono ancora troppo pochi ad agire e a far qualcosa.
    Associare un Fondo Pensione a chi ha appena intrapreso il proprio cammino in questo mondo può apparire un comportamento eccessivo, esagerato, maniacale anche, piuttosto che lungimirante.
    C'è in realtà un valore enorme dietro a tutto questo, ampiamente trascurato ma facilmente comprensibile con un esempio.

    Mettiamo di accantonare 1.000 € l'anno in una forma di previdenza complementare per nostro figlio, o per nostro nipote.
    Mettiamo di farlo da quando il bimbo è molto piccolo, fino a quando, iniziando a lavorare, potrà versarci in autonomia: 20 anni è un orizzonte di tempo ragionevole.
    Mettiamo di posizionarci su una linea azionaria, per la quale ipotizziamo un rendimento medio annuo del 4% (è piuttosto prudente, ma va bene così).
    Mettiamo infine che versamenti e rendimenti siano reali, al netto dell'inflazione, non nominali.
    Dopo 20 anni, con un investimento complessivo di 20.000 €, tutti deducibili fiscalmente, ci si ritrova con un montante (versamenti + guadagni accumulati nel tempo) di circa 29.800 €.
    Niente male per il proprio figlio o nipote che è appena entrato nel mondo del lavoro!
    Decisamente niente male.

    Ma il punto è un altro: questa somma di denaro rimarrà verosimilmente accantonata e investita per altri 35/40 anni, perché il Fondo Pensione non sarà "per sempre" come un diamante, ma è comunque generalmente "per tanto, tanto tempo".
    Questi 29.800 €, al 4% medio atteso annuo, finiscono per diventare, dopo altri 35 anni, 117.500 €.
    Un montante enorme, se si pensa da quale piccolo investimento prende vita. 
    Un montante decisamente utile, anzi indispensabile, per quando quel bambino sarà un uomo maturo.
    Il tutto, lo ricordo, da un investimento complessivo di 20.000 €: quello che un genitore o un nonno spesso si trova a spendere subito, non in 20 anni, per regalare una macchina al proprio figlio o nipote.

    Vuoi provare a cambiare importi, tempi e rendimenti?
    Fallo pure, la sostanza non cambia.
    Rimane un enorme regalo, figlio di quella lungimiranza che tanti anni prima poteva apparire eccessiva, esagerata, forse anche maniacale.
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    6 - CHE COS'E' UNO SPLIT AZIONARIO?

    Amazon si aggiunge ad Alphabet, Apple e Tesla nell’operazione di frazionamento (stock split, in inglese) dei suoi titoli azionari.
    Amazon frazionerà le sue azioni con un rapporto di 20 a 1.
    Un'operazione che, se approvata dagli azionisti, sarà effettiva dal prossimo 6 Giugno.
    Ciò significa che per ogni azione posseduta di Amazon, si otterranno 19 azioni aggiuntive.

    Questa non è la prima volta che Amazon divide le sue azioni.
    La società ha effettuato uno split con un rapporto di 2 a 1 nel 1998 e nel 1999, ed una divisione 3 a 1 sempre nel 1999.
    Ma Amazon non è il solo grande nome della tecnologia e delle società di consumo, che fa questo tipo di operazioni.
    A Febbraio, anche Alphabet, la società che controlla Google, ha annunciato un piano di frazionamento azionario 20 a 1.
    Nel 2020, sia Apple che Tesla hanno realizzato degli split azionari.

    Ma che cos'è esattamente e come funziona un frazionamento azionario?
    Attraverso questa operazione, una singola azione viene suddivisa in più titoli.
    Nulla di cui preoccuparsi: il valore delle partecipazioni è lo stesso, solo in porzioni più piccole.
    Si può immaginare una barretta di cioccolato che viene divisa in più pezzetti.
    Alla fine si ha sempre la stessa quantità di cioccolato, solo in segmenti più piccoli.

    In un frazionamento azionario, è molto importante ricordare che anche il prezzo dell'azione viene ridotto.
    Se il CDA di una società annuncia una divisione 2 a 1, si riceverà un'azione extra per ogni titolo posseduto, ma il prezzo dell'azione verrà dimezzato.
    Ad esempio, se si ha un'azione della società X a 10 $ per azione, con lo split si avranno due titoli della stessa azienda, del valore di 5 $ l'uno.
    Ciò non significa che il titolo costi meno, perché i fondamentali della società non cambiano.
    Rimanendo all’esempio della barretta di cioccolato, dopo averla rotta in pezzetti, si hanno scaglie più piccole, non una maggiore quantità di cioccolato.

    Ma perché ricorrere allora ad uno split?
    E' un modo per le aziende di aumentare la propria liquidità.
    Più liquidità, significa maggiore facilità per gli investitori di acquistare o vendere azioni in Borsa.
    Più basso è l'importo di ciascuna azione, minore è l'esborso necessario anche al più piccolo investitore, per acquistare quell'azione e diventare così socio dell'azienda.
    Nella maggior parte dei casi, i frazionamenti azionari vengono effettuati dalle società quando il prezzo delle loro azioni è aumentato nel tempo in maniera significativa, in particolare rispetto a quello delle società quotate concorrenti.
    Se il prezzo delle azioni diventa più accessibile anche ai piccoli investitori, si può ragionevolmente presumere che ce ne saranno di più e, quindi, anche la liquidità complessiva del titolo aumenterà.

    Si prenda il caso di Alphabet, che ha chiuso la seduta di Martedì 1 Febbraio a 2.572,88 $.
    Molti investitori non sarebbero stati in grado di acquistarne il titolo, perché magari non hanno 2.500 $ da dedicare ad una singola società.
    Con il frazionamento delle azioni avvenuto quel giorno, il costo di ciascuna azione è passato a 128,64 $, e ogni detentore ha ottenuto 19 azioni aggiuntive per ogni azione posseduta.
    Un prezzo così è molto più abbordabile.
    Acquistare e vendere azioni è oggi più facile che mai, anche grazie a piattaforme di trading online.
    Per molti investitori queste divisioni potrebbero essere allora l’occasione di acquistare società che seguono da tempo.
    "Quando osserviamo una società come Apple, e guardiamo il valore di un investimento subito dopo un frazionamento azionario, non cambia la ricchezza dell’investitore.
    Quello che si nota sono le differenze nel volume degli scambi del titolo, che potrebbero essere legate al flusso di notizie", dice Ian Tam, direttore della Investment Research di Morningstar Canada.
    "Per gli investitori a lungo termine, un frazionamento azionario non influisce sul valore fondamentale dell'azienda o sulla ricchezza che si trovano in tasca".

    Opposto è invece il raggruppamento di azioni (reverse stock split).
    In questo caso la società divide il numero di azioni possedute dagli investitori, anziché moltiplicarle.
    Il prezzo delle azioni, di conseguenza, aumenta.
    Ad esempio, se si possiedono 10 azioni della società X a 10 $ l’una, e la società annuncia un frazionamento inverso 1 a 2, si arriverà a  possedere cinque azioni a 20 $ per azione.
    Di solito i raggruppamenti sono annunciati da quelle società che hanno prezzi bassi dei loro titoli rappresentativi, e vogliono aumentarli spesso per evitare di essere cancellati dalla quotazione.
    Si potrebbe allora pensare che i raggruppamenti di azioni siano delle cattive notizie per l'azienda, ma non è sempre così.
    Uno dei più famosi esempi di frazionamento azionario inverso è quello di Citigroup.
    Il prezzo delle sue azioni è sceso a meno di 10 $ durante la crisi finanziaria globale del 2008, e non è più risalito.
    Nel 2011 il CDA della banca ha deciso di fare una divisione inversa 1 a 10.
    La divisione ha così portato il prezzo del titolo da 4,50 a 45 $.
    La società è sopravvissuta con le sue azioni.
    I titoli sono ora scambiati a circa 56 $ l'uno.
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    7 - L'ARENA DEL FUTURO

    Sempre più si parla di auto elettriche e mobilità del futuro.
    Ci sono però dei limiti ancora da superare, legati in particolare all'autonomia delle batterie, che è necessario aumentare senza appesantire però troppo il veicolo. 
    Non è sostenibile, infatti, spostare 80 chili di uomo con 2 tonnellate di alluminio, seppur a zero emissioni dirette.
    Ecco allora che un consorzio di aziende ha cambiato angolazione e prospettiva, spostando l'alimentazione elettrica non più "a bordo" dell'auto, ma "a bordo" della strada. 
    In questo consorzio troviamo nomi noti, come Mapei e Pizzarotti per il manto stradale, Fiamm per le batterie, Prysmian per i collegamenti, Tim per l'infrastruttura digitale di supporto, Stellantis e Iveco per i mezzi, fino ai partner di ricerca come il Politecnico di Milano, RomaTre e l'Università di Parma.

    Un pool di tutto rispetto, che si è concentrato sui 62 chilometri della A35, autostrada ai più conosciuta come Brebemi, tra le campagne di Brescia e Bergamo, per arrivare a sud di Milano e collegarsi al sistema delle tangenziali milanesi.
    Il tracciato è nato nel 2014, ma è sempre rimasto una seconda scelta rispetto alla più diretta ed economica A4. 
    Da qui allora la coraggiosa idea di puntare sull'innovazione, per trasformare la Brebemi in una vera e propria "autostrada elettrica".
    L'obiettivo è quello di alimentare i veicoli elettrici "strada facendo", azzerando così i tempi di ricarica e, contemporaneamente, superando il limite infrastrutturale del sempre limitato numero di colonnine di ricarica a disposizione degli automobilisti.
    Per fare questo sarà sufficiente un solco di 80 centimetri nell'asfalto, dove andranno posate le spire del collegamento, compatibile con tutti i veicoli ad alimentazione elettrica. 
    Il principio è simile a quello già applicato oggi per la ricarica wireless degli smartphone, con l'energia che viene trasferita tramite induzione.
    Un'idea innovativa basata su una tecnologia flessibile e sostenibile. 
    La sperimentazione è già iniziata lo scorso Dicembre, con una Fiat 500 elettrica, una Jeep Renegade full electric, e un Bus Intercity Iveco, che stanno girando lungo un anello di asfalto di 1 chilometro, ribattezzato "Arena del Futuro" e situato a Chiari, in provincia di Brescia, in prossimità del primo casello della A35.
    Contemporaneamente Aleatica, la società spagnola controllata dal fondo Ifm Global Infrastructure che ha acquisito nel 2020 la maggioranza della Brebemi, sta lavorando per creare un parco fotovoltaico che possa autoalimentare le due corsie elettrificate, una per senso di marcia, anche grazie all'intelligenza artificiale e all'IoT (Internet of Things o internet delle cose) incorporato all'infrastruttura.
    Se tutto andrà secondo le previsioni, entro il 2023 dovrebbe essere cablata la prima corsia. 

    Idee simili si stanno sviluppando anche altrove: a Tel Aviv per il servizio di bus cittadino, a Colonia, in collaborazione con Volkswagen, per la logistica di ultimo miglio, e sull'isola di Gotland, in Svezia, per il servizio di navetta aeroportuale. 
    Il progetto italiano della Brebemi è il primo che coinvolge anche il traffico veicolare privato in un progetto di ricarica elettrica in movimento. 
    Il tempo allora ci dirà se questi progetti diverranno replicabili su ampia scala, o se rimarranno solo un prototipo confinato nell'Arena del Futuro.
  • play_arrow
    volume_up
    volume_down

    Concludo questa mia 7in7 augurandoti un sereno fine settimana.
    Un caro saluto,

    Davide