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www.davideberto.it2024-10-11
  • Voglio dare il via oggi a questa mia 7 Notizie in 7 Minuti, parlandoti del presente della Consulenza Finanziaria in Italia.
    Lo farò aiutandomi anche con alcuni dati.
    Alla fine del 2019, gli iscritti alla sezione dell'Albo dei Consulenti Finanziari abilitati all'offerta fuori sede erano 53.300, con una riduzione rispetto al 2018 del 3,7%.
    Tra questi iscritti, coloro che esercitavano effettivamente la professione operando per banche, SIM ed SGR (Azimut è proprio una Società di Gestione del Risparmio) erano circa 34.000.
    I Consulenti abilitati tendono purtroppo ad invecchiare, in quanto i giovani Consulenti Finanziari che si iscrivono all'Albo non riescono a compensare l'uscita dei Consulenti più anziani, con un conseguente progressivo aumento dell'età media oggi pari a 51 anni.
    Io (ne compirò 40 a inizio Novembre) posso allora considerarmi un giovane per la Professione...
    L'89% dei Consulenti ha un'età superiore ai 40 anni.
    Il 59% supera i 50, e il 6,4% ha oltre 65 anni.
    La percentuale di iscritti under 30 nell'ultimo quinquennio resta stabilmente sotto il 2%.
    Le donne, in leggero aumento, rappresentano oggi il 21,6% dei Consulenti Finanziari.
    Una su cinque o poco più insomma.
    Le donne che svolgono questo lavoro, conciliandolo con figli e famiglia, sono a mio parere molto, molto in gamba.
    Il 55,5% dei Consulenti attivi opera con la stessa azienda da almeno 6 anni.
    A Settembre festeggerò 7 candeline del mio mandato con Azimut.
    Opinione personale?
    Ci sarebbe sicuramente bisogno di più brio e freschezza all'interno di questa splendida Professione, a mio parere ancora troppo "ingessata" e un pò datata nei modi e nel rapporto spesso in essere con la clientela.
    Servono idee nuove, serve un modo nuovo di lavorare e di parlare del lavoro del Consulente Finanziario per poter trasmettere al meglio competenze e consapevolezza, e per essere quindi anche più comprensibili.
    Io, per quanto possibile, cerco, cercherò sempre di metterci tutto l'impegno per portare tutto questo nel mio ambito lavorativo a tuo favore.
    Promesso.

    Ti auguro una buona lettura!
  • 1 - BOLLE FINANZIARIE: COSA (NON) TI DICE IL CERVELLO

    Bolla finanziaria?
    Niente di nuovo sotto il sole.
    Le bolle finanziarie sono ricorrenti, spesso dolorose.
    Ci rammentano gioie e dolori del capitalismo di mercato.
    Come la febbre dei tulipani olandesi nel Seicento, o la Compagnia dei Mari del Sud nel Settecento.
    Interessante analizzare però quali sono le condizioni per cui si formano tali bolle, specialmente quando la bolla è legata a forti investimenti tecnologici.
    Il racconto di una storia d'impresa non interpreta solo il presente, ma dà soprattutto forma al futuro.
    Questo è un fondamentale ingrediente per dare credibilità e senso a progetti di start-up, e di aziende in generale, che si fondano su un'innovazione tecnologica con prospettive di predicibilità incerta.
    Il futuro, per convincere l'investitore, ha bisogno pertanto di elementi emozionanti che compensino la scarsa base di razionalità decisionale.
    La narrazione è una straordinaria esca per fare abboccare investitori inesperti e poco maliziati, i quali, attratti da potenziali importanti ritorni economici, perdono di vista il rischio e alimentano bolle speculative con inevitabili crolli successivi.
    L'ottimismo per onde lunghe di opportunità, e per un esito di lieto fine dove il sole splende e il progresso avanza, è particolarmente presente quando il business è trainato da rapide evoluzioni tecnologiche.
    In questi casi gli sviluppi dei processi e dei consumi sono collegati ai cosiddetti fattori "disruptor" che disintermediano le filiere e rendono più corte le supply chain (catene di distribuzione), come nei celebri casi di Uber o di Netflix.

    Secondo alcuni economisti, 4 sono le principali cause alla base delle bolle finanziarie:
    1) Un forte grado di incertezza e di imprevedibilità dell'innovazione;
    2) Una disponibilità degli investitori ad accedere all'oggetto della speculazione, per cui chi è orientato a promuovere finanziariamente la nuova impresa non trova ostacoli a sostenere direttamente l'idea imprenditoriale;
    3) La presenza di elementi narrativi che aiutano a costruire uno storytelling avvincente (la genesi e il profilo dell'imprenditore, il contesto geografico dove l'impresa si sviluppa, le caratteristiche poco conformistiche, l'attrattività del prodotto e così via);
    4) La presenza di investitori novizi e non sofisticati che finiscono per prendere decisioni sulla base di una overconfidence eccessiva e a-razionale.

    Molti sono i casi che si possono citare, ma un esempio su tutti può essere il confronto che viene fatto tra l'investimento in Tesla rispetto a General Motors, anche se ambedue sono profondamente coinvolte nel processo di elettrificazione delle autovetture.
    E in tutti i casi c'è la grande responsabilità dei media che sono sempre alla ricerca di protagonisti spettacolari, la cui storia viene "acquistata" più volentieri.
    Che fare per non cadere nel tranello e per non alimentare dunque potenziali bolle con dolorose possibili esplosioni?
    Se è vero che le bolle prosperano nello spazio tra fiction e realtà, occorre ridurre questo scostamento, presidiando il più possibile il contesto narrativo e costringendo imprenditori e professionisti dell'informazione a diffondere storie solide e credibili.
    Elevare poi l'educazione finanziaria dell'investitore, il quale, anche se ingolosito da rendimenti tipici da soglie di rischio elevato, deve conoscere più approfonditamente le probabilità di successo di alcune tecnologie del futuro, e deve farsi aiutare da professionisti navigati e meno naif.
    Per finire, senza rinunciare a farsi condizionare dalle emozioni, chi scommette sul futuro deve mettere in conto la potenziale concorrenza di altri attori sul mercato, e le possibili pressioni sui prezzi, per cui essere consapevole che ogni dichiarazione di ottimismo sul futuro va comunque controbilanciata da un sano richiamo al pessimismo della ragione.
  • 2 - COME LE AZIENDE ANCHE GLI STATI FALLISCONO. E CONTINUERANNO A FARLO...

    I passati decenni hanno abituato molti risparmiatori a ritenere privo di rischio l'investimento in titoli di Stato.
    Anni in cui ci si era assuefatti a un matrimonio da sogno, soprattutto sui titoli governativi italiani: massima sicurezza con il massimo rendimento (benché nominale, visto che i tassi reali erano ampiamente erosi dall'inflazione galoppante).
    Pur con una maggiore tendenza nel preferire i titoli domestici (errore dell'home bias), questa convinzione si allarga a tutto il mondo dei bond governativi.
    Insomma, investimento pubblico pare essere sinonimo di sicuro.
    Eppure gli emittenti di questi titoli, gli Stati appunto, sono sempre falliti.
    Naturalmente non con la stessa frequenza con cui le aziende aprono e chiudono i battenti.
    Si sono tuttavia verificati ben 181 default sovrani dal 1800 al 2015: uno ogni 14 mesi circa in media.
    Questi fallimenti hanno perlopiù riguardato Paesi Emergenti (Venezuela ed Ecuador comandano la poco invidiabile classifica con 10 default ciascuno), ma anche nel mondo occidentale si sono verificati diversi casi di insolvenza, alcuni dei quali insospettabili seppur collocati indietro nel tempo: per 4 volte la Germania non ha rimborsato i suoi creditori (l'ultima a ridosso degli anni Trenta), l'Austria addirittura 7 volte, ma anche il Portogallo e la Spagna non hanno onorato il proprio debito, così come la Grecia che nella celebre e sanguinosa crisi del 2010 ha generato un crac di oltre 300 miliardi di dollari, ben più degli 82 miliardi che coinvolsero i creditori dell'Argentina nel 2001.
    Ma per quale motivo tutto questo accade?
    Perché questi Stati hanno accumulato nel tempo una tale dose di debito da renderlo insostenibile e doverlo così resettare.
    Ma perché allora ne è stato fatto così tanto, di debito?
    Facciamo un passo indietro e proviamo a chiarire un concetto non semplicissimo, ma molto importante: il vincolo pubblico di bilancio.
    Un Paese, come qualsiasi soggetto economico, ha delle fonti di approvvigionamento per far fronte alle proprie necessità di spesa.
    Nel caso in cui la differenza tra queste due variabili sia positiva, ci troviamo di fronte ad un avanzo pubblico, cioè ad un risparmio: lo Stato è virtuoso in quanto spende meno di ciò che incassa.
    Nel caso opposto c'è un fabbisogno, un disavanzo: mancano insomma soldi, che da qualche parte vanno presi.
    Si possono trovare allora grazie ai finanziamenti della banca centrale (creazione di nuova moneta), o, più frequentemente, attraverso l'aumento del debito pubblico (nuovi titoli di Stato in emissione).
    L'identità contabile suggerisce che, nel lungo termine, gli impieghi nei quali lo Stato spende (spesa pubblica e interessi sul debito), devono coincidere con le fonti attraverso cui lo Stato stesso fronteggia le uscite (tributi e variazioni del debito pubblico e della base monetaria).
    Insomma, quello che ogni impresa e ogni buon padre di famiglia è costretto a fare se vuole mangiare.
    Se questa relazione non viene rispettata e determina un disavanzo, si tratta di capire come tale fabbisogno può essere soddisfatto.
    La creazione di nuovo debito per far fronte al fabbisogno crescente è un refrain che da molti anni caratterizza la maggior parte dei sistemi economici.
    Di per sé, un aumento di debito non è necessariamente un fardello più pesante che un Paese si porta appresso, perché andrebbero considerati anche:
    - la ricchezza prodotta: tanto più questa cresce, tanto più l'aumento di debito è sostenibile e non preoccupante;
    - la dinamica del debito in termini reali: l'inflazione ha effetti sul vero peso del debito.
    Essa erode potere di acquisto a chi possiede reddito, ma al contempo alleggerisce chi possiede debito.
    Al di là di queste variabili che è importante considerare, ciò che sappiamo è che in media il rating dei principali emittenti pubblici si è deteriorato negli ultimi anni.
    Sia nel mondo Occidentale che in quello Emergente, il sostegno alla grande crisi del 2008 e il supporto prolungato per rimettere in carreggiata la ripresa economica ha fortemente appesantito i conti pubblici, indebolendone il bilancio e deteriorando così il rating.
    Gli emittenti speculativi (Speculative Grade) sono in aumento, quelli invece di massima affidabilità con rating AAA in netto calo.
    Guardando al nostro locale, di buono c'è senz'altro che il nostro Paese non è mai stato inserito nella black list degli insolventi.
    Tuttavia le cose cambiano, ed è evidente, dati alla mano, il deterioramento del merito creditizio negli ultimi decenni della nostra Italia (da un rating AA nel 1993, ad un BBB con outlook negativo oggi).
    Dobbiamo allora prepararci a nuovi imminenti e sanguinosi default?
    Non è detto.
    Significa semplicemente che considerare l'investimento in bond governativi, domestici o meno, un'operazione priva di rischio e paragonabile alla detenzione di liquidità è assolutamente sbagliato.
    Tanto più alla luce dell'ulteriore, inevitabile appesantimento sui bilanci pubblici come logica conseguenza dell'emergenza sanitaria ed economica Covid-19.
    Quale livello di rapporto debito/Pil dovranno sopportare gli Stati nel prossimo futuro?
    Quali questioni si pongono, in primis per quei Paesi finanziariamente più fragili e già in precarie situazioni?
    Considerare questo asset alla stregua di tutti gli altri all'interno di un portafoglio ben diversificato: è questo l'unico comandamento da seguire per evitare inutili concentrazioni di rischio prima, e possibili dolorose delusioni poi.
  • 3 - UN GIGANTE DA 111 MILIARDI DI EURO

    Con l'ingresso annunciato in Autostrade per l'Italia (Aspi) attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, controllata dal Tesoro per l'83%, lo Stato torna azionista di quasi tutti i settori centrali dell'economia italiana.
    Se dovesse poi entrare, come ventilato, in Ilva sempre attraverso CDP, e in Alitalia con il ministero del Tesoro, si chiuderebbe il cerchio.
    Dopo la planata negli ultimi 3 anni nel portafoglio pubblico del Monte dei Paschi e di Tim, il paragone con l'IRI degli anni 70-80 diventa inevitabile.
    Strade, navi, aerei, difesa, meccanica, elettronica, telecomunicazioni, acciaio, banche, energia, treni, informazione...
    Caselle occupate, ora come allora.
    Ieri la necessità di una ricostruzione post guerra, oggi invece post pandemia.
    Quanto vale tutto ciò? Più dell'anno scorso.
    E quanto rende? Di meno.
    Sulle 7 grandi aziende quotate, per capitalizzazione, e sulle 9 grandi non quotate, con il metodo dei multipli, le società del Tesoro valgono oltre 111 miliardi di euro, con un +6% dal 2018 trainato in gran parte dall'Enel.
    Ma l'utile per il Ministero dell'Economia, cioè per le casse pubbliche, è sceso in un anno del 33% a 4,721 miliardi.
    E il rendimento, il rapporto tra utile e valore, è crollato del 41% ed è oggi del 4,2%.
    Lo Stato si espande allora nel mercato per effetto della crisi, ma la redditività non è ovviamente assicurata.
    L'IRI del 1983, valutato ad oggi, aveva un attivo di 138 miliardi.
    Lo Stato oggi ha quote dirette più diluite (tranne Rai, Mps e Fincantieri), ma più ramificate.
    Tre gli errori da evitare con questi 111 miliardi di partecipazioni: fare i cassettisti, svenderle o restarci per sempre.
    Per allearsi con lo Stato il mercato chiede una logica a tempo, modello Mps, con obiettivi di profitto.
    E nella vicenda Autostrade, ancora tutta da scrivere (secondo le stime CDP dovrebbe sottoscrivere un aumento di capitale fra i 3 e i 4 miliardi per arrivare a una partecipazione del 31-33%), la presenza di coinvestitori è essenziale perché il debutto in Borsa promesso diventi vero e non si trasformi in una definitiva partecipazione dello Stato, costretto a fare l'imprenditore.
    Non è il suo mestiere, e la politica spesso si fa prendere la mano.
    Mentre assicurare i controlli e dettare le regole lo è.
    I fondi stranieri intanto, soci di Atlantia, annunciano ricorso contro la decisione del governo italiano di costringere i Benetton a rinunciare al controllo.
    E l'ultima cosa di cui si avrebbe bisogno in momenti così sono proprio i contenziosi legali.

    L'utile maggiore fra le partecipate viene oggi al Ministero del Tesoro dalla CDP: 2,8 miliardi, sebbene in calo dai 3,6 dell'Aprile scorso da bilancio 2018.
    Seguono con 746 milioni pro-quota l'Enel (dai 957 precedenti), e con 573 milioni le Ferrovie dai profitti in crescita (da 474).
    Poi Leonardo (248 milioni dai 154 precedenti), quindi con 392 milioni le Poste (in minimo calo dai 409 precedenti).
    In perdita Mps e la Rai (-71 milioni).
    Autostrade si presenta con un altro rosso immediato: 268 milioni la perdita nell'esercizio 2019.
    Per non parlare di Tim, che porta sì 38 milioni di profitti e 17 di dividendi a CDP, ma da quando Cassa vi è entrata in prima battuta con il 4,2% (ora ha quasi il 10%), ad Aprile 2018, autorizzando un investimento di 605 milioni per il 5%, ha più che dimezzato il valore in Borsa (-55% a fine Luglio 2020).
    L'IRI aveva invece Comit, Credito Italiano e Banco di Roma, Autostrade e Fincantieri, Finmeccanica e la Stet, Finsider e la Rai, le Ferrovie e Alitalia.
    Tutte vicine al 100%.
    Oggi il Tesoro e Cassa Depositi hanno quote, ma in misura molto variegata, in Mps e Fincantieri, Tim, Rai, Leonardo, Poste, Stm, Enel, Eni, Snam, Italgas, Terna ed Enav.
    E ancora, attraverso CDP, in Open Fiber e Manzotin, Versace e le costruzioni con Webuild, gli alberghi con Th Resort, gli aeroporti (Napoli, Bologna, Torino, Alghero, Milano) con il fondo F2i.

    Serve però una struttura in tutto questo.
    Serve una classe dirigente che sappia gestire bene le società, fare i piani industriali, scegliere i migliori manager.
    L'IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, agiva con logica di controllo, mentre CDP si muove in modo simile a un fondo di private equity.
    L'IRI era un ente pubblico finanziato con un fondo di dotazione statale e obbligazioni garantite dallo Stato, CDP è invece un intermediario finanziario che raccoglie attraverso il risparmio postale.
    Lo Stato italiano, azionista nel XXI secolo, è così tornato un gigante.
    Questo accade anche in Francia e Germania, si pensi a Renault o Lufthansa.
    Ma affinché gli errori del passato non si ripetano, c'è una sfida multipla da affrontare: sana redditività, separazione dei ruoli tra azionisti e gestione, manager e amministratori capaci e scelti per merito, controlli adeguati.
    Più la capacità di lavorare a fianco dei privati, ma sempre con criteri di mercato.
    Perché se 40 anni fa ci si poteva anche permettere di essere azionisti unici, il mito dello Stato imprenditore oggi non regge, e senza il patto con i privati la partita è persa in partenza.
    Per evitare l'accusa UE di aiuti di Stato, ma anche per stimolare le alleanze necessarie (in Alitalia ad esempio).
    La vicenda Autostrade farà allora da cartina di tornasole.
    Lo Stato deve entrare nelle imprese con le regole del mercato.
    Ma, soprattutto in crisi profonde come quella attuale, l'alleanza pubblico-privato appare l'unica strada perché il suo ingresso possa portare innovazione e benefici al mercato e alla collettività.
  • 4 - MA LE BANCHE CENTRALI CHE COSA FANNO ESATTAMENTE?

    Dal 2008, come tutti sappiamo, il mondo (non solo finanziario) non è più lo stesso.
    Uno dei principali fattori che ha contribuito a questo nuovo scenario è certamente rappresentato dalle banche centrali e dalle azioni di politica monetaria da esse intraprese, molte delle quali non erano lontanamente immaginabili fino a pochi anni fa.
    Vediamo allora di capire meglio come questi attori si sono mossi, quali comportamenti ancora stanno attivando, e con quali conseguenze sulle principali asset class finanziarie.

    > COSA FA DI SOLITO UNA BANCA CENTRALE?
    La banca centrale è l'attore protagonista della politica monetaria in un determinato paese o area geografica.
    La politica monetaria, a sua volta, rappresenta l'indice delle misure, delle strategie e degli strumenti utili a definire la quantità di moneta in circolazione in un sistema economico, al fine di raggiungere predeterminati obiettivi di crescita, di inflazione e così via.
    Il principale compito di una banca centrale è allora quello di modulare la circolazione della moneta, intervenendo direttamente e indirettamente sul costo del denaro, ed orientando così il sistema creditizio e il comportamento degli attori economici.
    Per svolgere queste funzioni, ogni banca centrale può andare in due direzioni: adottare decisioni di tipo espansivo per stimolare l'economia nelle fasi di rallentamento e recessione, ovvero decisioni di tipo restrittivo pensate al contrario per raffreddare l'eccessiva esuberanza economica e, con essa, il rischio di inflazione.
    Le decisioni amministrative sui tassi di riferimento si riverberano poi a cascata sui principali tassi di mercato a breve termine, in particolare Eonia ed Euribor, influenzando le dinamiche finanziarie e in particolare il sistema creditizio, i cui attori prendono a loro volta decisioni sulla base del costo del denaro.

    > COSA STA SUCCEDENDO ORA DI COSI' DIVERSO?
    Tutte le banche centrali, nessuna esclusa, dal 2008 in poi hanno affiancato alla normale operatività altri strumenti di carattere straordinario che ben presto sono entrati nell'ordinarietà.
    Le banche centrali sono intervenute direttamente sul mercato secondario acquistando obbligazioni di (quasi) ogni genere e scadenza, contravvenendo alla prassi che fino ad allora le aveva contraddistinte.
    Varie misure monetarie di natura espansiva sono iniziate addirittura prima della grande crisi in Giappone nel 2006, per poi proseguire con la Federal Reserve americana e la Bank of England nel 2008, ed arrivare in Europa nel 2015.
    Ad oggi nulla è cambiato, anzi.
    L'ingente acquisto di titoli sul mercato secondario è proseguito in modo serrato, per rafforzarsi ulteriormente negli ultimi mesi a seguito dell'emergenza Covid-19, facendo così lievitare i bilanci delle banche centrali che proseguono il trend intrapreso dopo la crisi finanziaria del 2008.
    In Europa, con la BCE, tutto ha inizio il 22 Gennaio 2015, quando prende il via l'era del celebre Quantitative Easing o QE.
    La missione dell'Eurotower è chiara.
    Gli acquisti in massa vanno a sostegno delle quotazioni obbligazionarie, specialmente bancarie, generando due conseguenze: aumento della liquidità nel sistema, e abbassamento artificiale dei tassi di interesse.
    Tutto questo si unisce dunque alle decisioni amministrative sui tassi guida sopra descritti, rafforzando la politica monetaria ultra-espansiva.
    Da Marzo 2015 a Settembre 2018 il programma di acquisti viene ripetutamente prolungato, e comporta inizialmente l'acquisto di 60 miliardi di titoli al mese, per poi arrivare a 80 miliardi.
    Nel 2018 il ritmo dello shopping rallenta ma non si arresta, attestandosi a 15 miliardi mensili.
    Il target degli acquisti nel 2019 si alza a 20 miliardi, mentre il resto è storia recentissima: con l'emergenza sanitaria di inizio 2020 ai 20 miliardi già in essere se ne aggiungono altri 120 decisi quest'anno, che proseguiranno fintanto sarà considerato necessario.
    Non è finita qui: la vera novità riguarda il PEPP, ossia il programma straordinario di acquisti deciso dalla BCE a seguito dello scoppio della pandemia.
    Questo ulteriore strumento di supporto prevedeva l'acquisto iniziale di 750 miliardi di euro di titoli fino a fine anno.
    Da ultimo, la BCE ha deciso di aggiungere altri 600 miliardi che portano la potenza di fuoco di questo "QE pandemico" a 1.350 miliardi di euro.
    Tutto questo, in aggiunta alle misure tradizionali.
    Questa operatività manterrà artificialmente ridotti i tassi di interesse anche sul debito di quei paesi, Italia in testa, che soffrono pesanti squilibri di finanza pubblica, e che sono i primi beneficiari di queste misure di allentamento.
    Solo per questo motivo un tradizionale BTP a dieci anni, rappresentativo dell'enorme debito pubblico italiano, paga oggi all'investitore un tasso di interesse irrisorio attorno all'1 e qualcosa %.
    Queste misure senza precedenti sono state prese da tutte le principali banche centrali, tra cui naturalmente la FED in America che ha deciso per l'acquisto di titoli ad oltranza, e che è intervenuta in misura molto forte a supporto del tessuto imprenditoriale.

    > QUALI CONSEGUENZE SUI MERCATI?
    Descritto cosa le banche centrali hanno fatto e stanno continuando a fare, quali conseguenze produce tutto questo sui mercati?
    Il primo e più evidente effetto riguarda il costo del denaro.
    Negli Stati Uniti i tassi sono ai minimi, ma positivi anche sulla parte della curva più a lungo termine.
    In Europa invece la curva del costo del denaro è in negativo su tutte le scadenze.
    La compressione dei rendimenti per gli investitori obbligazionari è tema che da tempo ci accompagna, e di cui difficilmente faremo a meno ancora per molto tempo.
    Sul fronte azionario, un comportamento così accomodante ha determinato negli ultimi anni la coesistenza di rialzi, anche persistenti e sorprendenti, così come di cadute violente e improvvise.
    Due considerazioni al riguardo:
    1) A questo comportamento lunatico e poco prevedibile dei mercati dobbiamo farci l'abitudine: tanto maggiore è l'interventismo delle banche centrali, e tanto maggiore sarà la distanza che si può generare tra quotazioni e valore, tra finanza ed economia.
    E' di conseguenza inevitabile assistere a dei momenti nei quali questo gap chiede di essere chiuso, anche con violenza.
    2) Da anni ormai si critica da più parti questa produttività delle banche centrali, che secondo i più sarebbero ostaggio dei mercati e pronte a rincarare la dose monetaria per coprire, lenire ed arginare le fasi di più accentuata volatilità.
    Indubbiamente questa "nuova normalità" della politica monetaria spaventa e alimenta fondatamente i timori di una crescita dopata, a tratti non giustificata dai reali fondamentali, ed inspiegabile se non con l'azione diretta delle banche centrali stesse.
    Tuttavia, la riflessione conclusiva potrebbe essere la seguente: se anche questo fosse vero, a chi conviene remare in direzione opposta a quanto fanno FED, BCE ed altre?
    Quanto è profittevole, dal punto di vista della finanza personale, restare fuori o, peggio, scommettere contro?
    Il dibattito è aperto.
    Tuttavia, a mio parere, l'investitore intelligente non è colui che trova nei mercati conferma alle sue congetture, ma è colui che sa adattarsi e capirne le regole fondamentali.
    Queste, ancora una volta, non sono cambiate.
  • 5 - SAREBBE STUPIDO STARNE FUORI

    E' un mercato ancora non del tutto compreso, da qualcuno sottovalutato, e di sicuro ancora poco presente all'interno dei portafogli degli investitori internazionali.
    Sto parlando della Cina.
    Salta agli occhi un dato su tutti, ovvero che il Paese valga soltanto il 4,5% dell'MSCI All Country World, ossia il paniere azionario internazionale.
    Mentre alla Cina fa capo poco meno di 1/5 della popolazione mondiale, il 39% delle società di alta qualità, e 1/6 del PIL globale.
    Non solo: nel 2020 l'economia cinese crescerà dell'1% secondo il Fondo Monetario Internazionale, che a Giugno ha aggiornato le stime sul PIL mondiale portandole al -4,9% (dal -3% di Aprile), e quelle italiane al -12,8% (dal -10% precedente).
    Di fatto, il Paese asiatico sarà molto probabilmente l'unico a chiudere l'annus horribilis 2020 con un dato di crescita positiva del PIL.
    La Cina è stata colpita per prima dal Covid, ma ha reagito in maniera pronta ed efficace, tanto che è stato anche il primo Paese a rimettersi in piedi e a vedere la produzione tornare a regime.
    Soprattutto, non sono mutati nei tre mesi di emergenza due fattori determinanti: i trend strutturali che ne fanno una potenza economica e tecnologica senza confronti, e il fatto che sia ancora poco presente nei radar degli investitori.
    Questo vale per l'azionario, ma anche per il mercato obbligazionario locale, che è il secondo al mondo per dimensione, e ancora per larghissima parte in mano a investitori domestici.
    Si stima che complessivamente l'inserimento della Cina negli indici obbligazionari mondiali potrebbe generare flussi in entrata nel Paese di quasi 300 miliardi di dollari nei prossimi anni.
    Inserire allora questa asset class in un portafoglio di investimento obbligazionario, può portare almeno due vantaggi: una decorrelazione pressoché totale rispetto a tutte le altre classi di attivo azionarie e obbligazionarie del resto del mondo, e rendimenti mediamente più elevati rispetto a tutte le altre obbligazioni con profili di rischio paragonabili.
    La Cina è destinata a diventare presto la prima potenza economica del pianeta: un traguardo che il Covid, anziché allontanare, ha avvicinato.
    E con sé trascinerà l'intero indotto asiatico, la cui ascesa prosegue in modo incessante.
    Non detenere posizioni in questa parte di mondo equivale a perdere probabilmente le maggiori opportunità di estrarre valore oggi disponibili nel mercato.
    Il colosso asiatico non solo continua a crescere a spron battuto, ma sta trasformando radicalmente il proprio sistema economico: con l'ambizioso programma "Made in China 2025" punta ad abbandonare il ruolo di fabbrica del mondo per diventare una regione che esprime innovazione ai massimi livelli nei due pilastri del futuro, ovvero tecnologia e sostenibilità.
    La Cina è oggi leader assoluta in tecnologie chiave come l'Intelligenza Artificiale e il 5G, con largo distacco rispetto agli USA con cui rivaleggia in una guerra fredda che non è più militare (come avveniva tra USA e Russia) e neppure commerciale, come nei proclami di Donald Trump, ma appunto tecnologica.
    Ed è anche il Paese che spende di più al mondo nelle energie pulite: nel 2019 ha investito 83 miliardi di dollari contro i 55 degli USA e i 16,5 del Giappone.
    Pechino sta d'altronde conducendo da 40 anni una politica mirata a rendere il suo sviluppo più qualitativo che quantitativo.
    Lo dimostra anche il fatto che il governo di Xi Jinping non abbia fissato target di PIL per il 2020, abbandonando il diktat della crescita a ogni costo che voleva il raddoppio dell'economia in un decennio.
    Il progresso cinese non è, insomma, qualcosa che si costruisce in pochi anni, e non è qualcosa che tre mesi di crisi può intaccare: quello recente affonda le radici nell'avvio della riforma Dentista del 1978.
    Ma, a ben vedere, in realtà il dominio del Paese è molto più antico: a partire dal 15° secolo e fino alla guerra dell'Oppio nel 19° secolo, la Cina è stata la più grande potenza economica del mondo.
    Ora sta semplicemente tornando al vertice.
  • 6 - CONVIENE O MENO EFFETTUARE IL RISCATTO DI LAUREA?

    Diverse volte mi sono sentito chiedere in questi anni se convenga o meno riscattare la laurea.
    E' una questione che affiora frequentemente e che, meglio chiarirlo in partenza, non può trovare una soluzione predeterminata e valida per tutti.
    Anche per questo, per l'eterogeneità delle situazioni e per i frequenti interventi normativi che continuano a riguardarla, è bene acquisire una maggiore consapevolezza.
    Ecco toccati di seguito i punti più importanti del tema.

    > COS'E' E CHI PUO' RICHIEDERE IL RISCATTO DI LAUREA
    Il riscatto del corso di laurea è un istituto giuridico previsto dal nostro ordinamento che consente di anticipare il raggiungimento della pensione, valorizzando gli anni di studio universitario.
    In altre parole, si tratta della possibilità di convertire a pagamento gli anni trascorsi all'università in tempo utile ai fini previdenziali, ma solo nel caso in cui il percorso di studio viene portato a termine con successo.
    Possono infatti beneficiare di questo istituto solo coloro che hanno conseguito il titolo.
    Possono dunque inoltrare domanda tutti coloro che sono in possesso del diploma di laurea o di titolo equiparato.
    Il legislatore considera tali i diplomi universitari, i diplomi di laurea del vecchio (tra i 4 e i 6 anni) e del nuovo ordinamento (laurea magistrale e specialistica), i diplomi di specializzazione post-laurea, i dottorati di ricerca e i diplomi rilasciati dagli istituti di alta formazione artistica e musicale.
    Possono ancora essere oggetto di riscatto i titoli di studio conseguiti all'estero, a patto che ne sia riconosciuto il valore legale in Italia.
    La platea di lavoratori laureati potenzialmente interessati riguarda gli iscritti all'assicurazione generale obbligatoria e ad altre gestioni INPS; tuttavia anche molte Casse Professionali consentono ai propri aderenti di procedere alla richiesta.

    > QUANTO COSTA
    Il principale aspetto di valutazione da parte di un potenziale interessato è quanto devo pagare subito per un presumibile vantaggio che avrò in futuro?
    La somma da sborsare cambia, anche sensibilmente, a seconda che i periodi da riscattare si collochino temporalmente nel sistema retributivo piuttosto che in quello contributivo.
    Il primo caso si applica ai periodi antecedenti il 2012 o il 1996, rispettivamente per i lavoratori che al 31.12.1995 avevano o meno 18 anni di contribuzione.
    Nella fattispecie l'importo da versare viene calcolato sulla base di alcuni parametri come l'età del richiedente, il sesso, il periodo di riscatto e la retribuzione percepita (istituto della riserva matematica).
    Semplificando, si può dire che la riserva matematica è pari al valore attuale delle prestazioni future, in particolare alla differenza tra la pensione che il richiedente otterrebbe beneficiando del riscatto e la pensione percepita in assenza del riscatto di laurea.
    Pensiamo, ad esempio, ad un lavoratore che operando il riscatto andrebbe ad incassare una pensione annua di 25.000 euro, in luogo di una pensione annua di 23.000 euro che avrebbe senza il riscatto.
    Questa differenza di 2.000 euro rappresenta il valore della riserva matematica, che andrà moltiplicato per un opportuno coefficiente attuariale dal quale si genera l'onere complessivo da versare, funzione in primis dell'età del richiedente.
    Diversa e più semplice è invece la questione se il riscatto avviene per un periodo collocato nel sistema contributivo.
    In tal caso l'onere è calcolato applicando l'aliquota contributiva della gestione di riferimento sulla retribuzione dell'anno che precede la presentazione della domanda, moltiplicato poi per il numero di anni da riscattare.
    Facciamo anche qui un esempio considerando un lavoratore dipendente (33% di aliquota contributiva), con una retribuzione lorda degli ultimi 12 mesi pari a 27.000 euro.
    La somma dovuta per il riscatto sarà pari a:
    27.000 x 33% = 8.910 euro (costo annuo del riscatto)
    8.910 x 4 = 35.640 euro (costo totale del riscatto)
    In ogni caso l'onere è deducibile, e può essere versato in una sola soluzione piuttosto che in un massimo di 120 rate mensili.
    Le regole fin qui esposte riguardano il riscatto standard, ordinario.

    > IL RISCATTO AGEVOLATO
    Il Decreto-legge n.4 del 2019 ha apportato diverse novità in materia pensionistica, introducendo anche alcune misure favorevoli per il riscatto della laurea.
    In particolare, per i soli periodi da riscattare che ricadono nel metodo di calcolo contributivo, è previsto che si applichi un importo forfettario pari al 33% del reddito minimo della Gestione Artigiani e Commercianti.
    Semplificando, tale norma consente di riscattare un anno di studi a 5.264,49 euro (il 33% di 15.953 euro, reddito minimo 2020 della gestione menzionata).
    Possono sfruttare tale possibilità solo coloro il cui periodo di riscatto ricade nel metodo contributivo o "a percentuale": rimangono così esclusi i lavoratori con anzianità contributiva maturata prima del 1° Gennaio 1996, e i titolari di qualsiasi altro trattamento pensionistico.
    In sostanza non vi può accedere chi già lavorava, ma chi ha studiato sì.
    A una condizione, però, tutt'altro che banale: il ricalcolo della pensione interamente con il metodo contributivo, in luogo del retributivo o del misto.

    > MA QUINDI, IL RISCATTO CONVIENE OPPURE NO?
    Come già anticipato, è impossibile dare una risposta univoca.
    Piuttosto è preferibile fare alcune considerazioni di opportunità, alla luce di quanto detto.
    Quando conviene?
    Il riscatto è sempre stato (e rimane tuttora) un istituto piuttosto oneroso, che implica un'uscita certa per un'entrata invece incerta.
    Va allora valutato con accortezza, tuttavia ci sono casi oggettivi in cui la sua convenienza è evidente: ad esempio se viene attivato il prima possibile, quando ancora si è giovani e la retribuzione (una delle variabili che più incidono sull'onere) è in media ancora piuttosto bassa.
    Ancora, c'è maggiore convenienza per le persone che hanno iniziato a lavorare da giovani, in quanto in questi casi il riscatto consente un anticipo effettivo del momento di pensionamento: chi ha iniziato a lavorare più tardi, infatti, può non beneficiare della maggiore anzianità contributiva, in quanto raggiungerebbe prima il requisito di vecchiaia.
    Infine, il riscatto agevolato introdotto nel 2019 ha indubbi elementi di vantaggio per chi vi può accedere, visto il costo forfettario previsto a prescindere dalla retribuzione del lavoratore.
    Quando invece non conviene?
    La convenienza dell'istituto va via via scemando con l'aumentare dell'età e della retribuzione, in quanto l'onere sale sensibilmente a prescindere dal metodo di calcolo.
    Attenzione anche all'agevolazione prevista dal decreto n.4 per gli anni ante 1996: è importante verificare in questi casi che il vantaggio determinato dall'anticipare il momento pensionistico non sia totalmente eroso dai maggiori costi dovuti sia all'esborso della somma, sia al passaggio da una prestazione (almeno in parte) retributiva ad una totalmente contributiva.
    Per determinare la convenienza meramente finanziaria dell'operazione, servirebbe in generale conoscere il differenziale tra l'incremento di pensione che si otterrà in futuro e l'esborso sostenuto.
    A tal fine può essere utile l'apposito simulatore messo a disposizione nel sito dell'INPS.
    Vi si accede con il proprio codice fiscale e con le credenziali personali.
    E' chiaro che poi, oltre al profilo strettamente finanziario, c'è anche quello psicologico: l'anticipo pensionistico è un momento per molti atteso, e può valere anche un importante sacrificio in termini monetari.
    Ma questa è un'altra storia...
  • 7 - IL BOOM DIGITALE SPINGE I TAGLI

    In Italia, nell'ultimo decennio, le filiali bancarie sono diminuite al ritmo di 1.000 all'anno.
    Questa media in futuro potrebbe anche essere superata tra spinte aggregatrici in corso e da annunciare, sussidi di aggiornamenti di piani industriali e lockdown.
    Perché tra i tanti effetti collaterali dell'emergenza sanitaria c'è anche la forte accelerazione della digitalizzazione dei clienti bancari, che a sua volta impatterà inevitabilmente sulla riduzione degli sportelli.
    Un trend generalizzato e già in corso da anni, visto che riguarda tutti i paesi europei.
    Da UniCredit raccontano che in Marzo gli utenti attivi sul mobile banking sono cresciuti del 27% rispetto all'anno prima.
    Durante il periodo Covid, Credit Agricole Italia racconta di aver aumentato del 15% i clienti operativi da mobile.
    Da questa digitalizzazione d'emergenza dei servizi bancari e della clientela, sembra che non si tornerà più indietro, soprattutto perché oggi le barriere sono facilmente abbattibili, con codici di accesso spesso sostituiti dall'impronta o dal riconoscimento facciale.
    Intesa Sanpaolo, primo gruppo bancario italiano, spiega che l'incidenza dell'attivazione di nuovi canali digitali e remoti, come internet banking e app, è passata da meno del 20% del 2015 fino a circa il 35% di oggi.
    Non solo.
    Nel 2019 il 50% dei conti correnti ha registrato un'operatività prevalentemente online.
    Ricordo bene, prima a Mestre e poi a Verona, i miei primi anni di banca allo sportello: quante persone in fila davanti alla cassa per effettuare un semplice bonifico...
    L'operazione è oggi gestibile comodamente con lo smartphone in meno di un minuto e a costi molto più contenuti.
    Sembra passata un'era da allora.
    Ricorrendo ai dati di sistema forniti dall'ABI (Associazione Bancaria Italiana), si scopre che oggi la metà dei bonifici è effettuata con modalità automatizzate, gli addebiti preautorizzati sui conti correnti sono quasi raddoppiati, e le operazioni con carte di debito su Pos più che triplicate negli ultimi 5 anni.
    L'altra faccia della medaglia riguarda invece la continua riduzione delle filiali.
    Il Banco BPM, ad esempio, ha congelato la recente riapertura di 250 piccole filiali.
    Ricorrendo sempre ai dati forniti dall'ABI, emerge che negli ultimi 10 anni le filiali in Italia sono scese del 28% (da 34.030 a 24.350).
    Una variazione in negativo che è la metà di quella della "frugale" Olanda, dove gli sportelli sono passati da 3.137 a 1.260, con un calo monstre quasi del 60%.
    Ma l'Olanda è piccola, e i suoi abitanti sono molto più digitali di noi italiani.
    Vediamo allora cosa succede nei paesi a noi più vicini, almeno fisicamente, e con cui il confronto è più naturale.
    In Germania le filiali sono scese del 32,5% (da 39.400 a 26.600), in Francia solamente del 6,5% a 35.800, in Spagna addirittura del 46% (da 44.400 a 24.000).
    Nel Regno Unito invece il calo è stato del 36%, a 7.650 filiali in totale.
    Tutti numeri che rappresentano un mondo bancario europeo caratterizzato da un trend comune, su cui il lockdown avrà un impatto certo.
    Non c'è banca, in tutto questo, che non abbia previsto o già incrementato i suoi investimenti sul digitale.
    La crisi dovuta al Covid sta modificando i comportamenti della clientela con un'adozione accelerata del modello di servizio multicanale attraverso mobile banking, internet banking, call center e filiali paperless.
    In MPS, ad esempio, le filiali sono passate dalle 2.032 di fine 2016 alle 1.422 di fine 2019, e durante gli ultimi anni è stato dato un forte impulso alla digitalizzazione dei servizi bancari.
    Oggi in filiale si va sempre più su appuntamento.
    E' una prassi diffusasi durante l'emergenza sanitaria, ma destinata a crescere in futuro.
    In UBI, allo stesso modo, è iniziata nel 2016 un'operazione di modernizzazione dei servizi bancari.
    Il gruppo all'epoca era arrivato ad avere oltre 2.000 sportelli, mentre oggi se ne contano 1.560 con un quinto di questi rinnovato per creare ambienti a misura di cliente.
    Già prima del Covid allora il sistema bancario era davanti a un'importante scommessa di evoluzione e cambiamento, ora ancora più accelerata dalla pandemia.
    Riuscirà a vincerla?
    Ne va della redditività e sostenibilità dell'intero settore, ma anche della soddisfazione del cliente finale.
  • Il prossimo numero della mia 7 Notizie in 7 Minuti è già in lavorazione, ma slitterà probabilmente di una settimana a Venerdì 28 Agosto.
    Tra i temi che andrò a trattare a fine mese, spiegherò perché è di fondamentale importanza pianificare in ambito finanziario, perché poi nel mondo degli investimenti le crisi non andrebbero mai sprecate, e ti parlerò anche di quei rischi che spesso non si riesce a comprendere nell'investire il proprio denaro.

    Concludo augurandoti delle serene settimane d'Agosto.
    Un caro saluto, a presto!

    Davide