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www.davideberto.it2024-10-11
  • Nel corso della settimana, leggendo le pagine de L'Economia del Corriere della Sera, ho trovato delle righe che condivido pienamente, con le quali voglio dare inizio a questa 7 Notizie in 7 Minuti.

    "Il mercato azionario in Italia è sempre accompagnato da pregiudizi e visioni distorte, come fosse un club esclusivo di miliardari e non un luogo dove si scambiano titoli e affluisce il risparmio di tutti, direttamente o indirettamente".

    Buona lettura!
  • 1 - L' ACCORDO EUROPEO IN SINTESI

    Nel corso di questa settimana non si è parlato d'altro (o quasi).
    Ecco allora un'estrema sintesi delle principali conclusioni emerse dal Consiglio Europeo, dopo quattro giorni e quattro notti di un negoziato record, concluso all'alba di Martedì 21 Luglio.
    In attesa delle ratifiche nazionali, e del via libera definitivo del Parlamento Europeo, l'accordo sull'NGEU (Next Generation EU, il nuovo fondo per la ripresa europea) prevede:
    1) Una dotazione di complessivi 750 miliardi di euro, di cui 390 come sussidi a fondo perduto, e 360 come prestiti da restituire nel tempo.
    Il 70% di questi verrà erogato tra il 2021 e il 2022.
    Cinque paesi (Austria, Olanda, Danimarca, Svezia e Finlandia) hanno voluto limitare il denaro a fondo perduto inizialmente previsto pari a circa 500 miliardi.
    Per la prima volta i ventisette paesi membri danno mandato alla Commissione Europea di indebitarsi a loro nome per una somma ingente.
    Il nuovo debito in comune dovrebbe indurre i paesi stessi a creare nuove tasse europee in vista del suo rimborso.
    2) All'Italia dovrebbero spettare contributi lordi pari a circa 209 miliardi di euro, di cui poco meno di 82 di sussidi e 127 di prestiti.
    Il nostro paese dovrà accettare forme più intrusive nella gestione del denaro.
    3) I paesi che più volevano limitare l'impatto dei sussidi (tra cui l'Olanda) hanno ottenuto un aumento delle rebates, ossia degli sconti in termini di contribuzioni.
    Metteranno in sostanza meno soldi.
    4) Il Fondo per la Ripresa distribuirà risorse tra il 2021 e il 2023, e rimarrà in vita fino al 2026.
    Il rimborso del denaro preso a prestito inizierà nel 2027.
    L'UE dovrà dunque introdurre misure per garantire risorse proprie al bilancio comunitario.
    Una nota a margine.
    Essere frugali significa essere sobri, moderati, pacati.
    Il termine insomma ha una connotazione positiva.
  • 2 - LA GRANDE OPPORTUNITA' DEL MENTAL ACCOUNTING

    Secondo il più recente Rapporto Consob pre-Covid sulle scelte di investimento delle famiglie italiane, l'85% delle 3 mila famiglie intervistate è incline alla contabilità mentale.
    Il 76% è poi avverso al rischio, il 63% è avverso invece alle perdite, il 63% non si fida degli intermediari finanziari, solamente il 33% è ottimista ...
    Se da un lato l'avversione al rischio e la scarsa fiducia negli intermediari finanziari sono pensieri che sappiamo essere largamente condivisi, dall'altro lato potrebbe sorprendere la così diffusa attitudine alla contabilità mentale, che prevede di separare la propria ricchezza per comparti mentali, da parte dei risparmiatori.
    Detto diversamente, più del capitale garantito e di prendersela con le banche, gli individui palesano l'inclinazione a questa distorsione.
    Ma in che cosa consiste il fenomeno del mental accounting?
    Sul tema assumono rilevanza gli studi compiuti nei primi anni 80 da Richard Thaler, premio Nobel all'economia nel 2017, il quale arriva a teorizzare e a dimostrare come le scelte economiche compiute dagli individui si basino su un vero e proprio sistema di conti mentali, nei quali il denaro viene suddiviso in diverse categorie.
    Questo fenomeno rappresenta una violazione del principio classico di fungibilità del denaro.
    Teoricamente, infatti, una somma di 1.000 euro può comprare qualsiasi cosa che abbia questo valore, tuttavia non funziona proprio così.
    Per natura ci viene automatico classificare e segmentare le spese, il reddito e la ricchezza.
    Per quanto, ad esempio, riguarda i conti mentali di reddito, le persone dimostrano di spendere il denaro in modo diverso, a seconda della provenienza della somma.
    Una vincita occasionale viene spesa in modo più agevole rispetto ad un aumento di stipendio, così come un gruzzolo ereditato implica un impatto emotivo ed un impiego diverso da una fonte reddituale di altra natura.
    Se per certi versi la contabilità mentale può apparire bizzarra o talvolta addirittura priva di senso, per altri versi si tratta di una delle poche anomalie cognitive che aiutano ad educare ad un corretto processo di pianificazione finanziaria.
    L'attitudine naturale a costruire dei conti mentali tra loro separati, è un assist perfetto ad una visione piramidale del processo di investimento, nel quale associare alla base quei bisogni gerarchicamente più importanti e incomprimibili, per passare poi via via ad esigenze meno importanti salendo verso la punta della piramide.
    In altre parole, i conti mentali suggeriscono l'opportunità di costruire più portafogli, ad ognuno dei quali associare una certa finalità, un preciso orizzonte temporale, e un determinato profilo di rischio/rendimento potenziale.
    Tutto questo è un aiuto formidabile rispetto alla regola fondamentale per cui è importante investire per qualcosa, e non investire in qualcosa.
    Individuare precisi conti mentali e metterci un'etichetta (dare un nome ai soldi), aiuta a comprendere le finalità per cui si sta investendo il denaro, limitando così gli effetti nocivi della volatilità che da sempre caratterizza i mercati.
    L'applicazione di un metodo così impostato fornisce chiarezza d'intenti e aiuta a comprendere quanto rischio finanziario è opportuno assumersi (e quale performance di conseguenza attendersi) in relazione a ciascun traguardo desiderato.
    I conti mentali sono allora una strepitosa opportunità consulenziale per aiutare il risparmiatore a fare ciò che più è giusto per lui.
    Non trovi?
  • 3 - IL PESO DEGLI STATI UNITI

    Quando si parla di portafogli azionari, non si può fare a meno di America.
    Logica, questa, che varrà anche in futuro, considerando che l'azionario USA è quello che ha dimostrato di saper reggere meglio nelle fasi negative, come quella in atto da fine Febbraio.
    Il fatto che il Nasdaq sia in territorio positivo di circa il 21% da inizio anno è abbastanza eloquente.
    Da non trascurare poi il contributo degli Stati Uniti al Pil mondiale, intorno al 25%, e il fatto che il mercato americano è il più liquido e capitalizzato al mondo, e qui vanno a quotarsi anche importanti aziende straniere.
    Il breakdown dei ricavi delle grandi aziende americane, non è poi limitato ai soli Stati Uniti: le multinazionali quotate nell'S&P500 raccolgono infatti circa il 40% dei ricavi nel resto del mondo.
    Comprare questi titoli vuol dire quindi sì acquistare America, ma anche investire nelle aziende leader oggi più esposte a temi e a diversificazione in ambito globale.
    L'America è poi la culla dell'innovazione tecnologica e della disruption, con aziende spesso in grado di intercettare i bisogni in costante evoluzione.
    Tra i settori in forte accelerazione, ci sono l'utilizzo dell'intelligenza artificiale, l'intrattenimento, i semiconduttori, l'automazione, ma anche l'healthcare con la telemedicina e la diagnosi a distanza.
    Certo, il mercato USA negli ultimi anni ha registrato una concentrazione senza precedenti, con i big della tecnologia (Facebook, Amazon, Apple, Microsoft, Google) che hanno fatto da asso pigliatutto.
    Big ai quali si sono aggiunti Netflix e Tesla.
    I primi cinque titoli menzionati rappresentano oggi il 23% circa della capitalizzazione dell'intero S&P500.
    Il livello più elevato e concentrato da 30 anni.
    In altre parole, gli investitori tendono a comprare una fetta ristretta del mercato, scommettendo su aziende con prospettive di crescita percepite superiori alla media del mercato stesso.
    Ecco allora perché oggi investire nell'azionario globale, significa avere un'esposizione all'America potenzialmente superiore anche al 50%.
    Parliamo pur sempre del mercato finanziario più importante al mondo, anche se la Cina non sta certo a guardare ...
  • 4 - PENSIONI AVARE? LA META' DI CHI LE INCASSA NON HA MAI VERSATO CONTRIBUTI

    Annualmente l'Istat diffonde dei contenuti in materia di pensioni.
    Un argomento ultra sensibile per tutti i lavoratori di questo mondo, e in modo particolare per quelli italiani.
    Ecco allora una breve analisi del 7° rapporto sul bilancio del sistema previdenziale italiano.
    Nell'analizzare le pensioni, la situazione si presenta sfavorevole anche per quelle medie e medio alte che da tempo hanno le prestazioni non indicizzate all'inflazione, e che oltre i 100 mila euro sono state "tagliate" senza un metodo scientifico.
    Su 16 milioni di pensionati, circa la metà è totalmente o parzialmente assistita dallo Stato, e quindi da tutti noi, attraverso le tasse che paghiamo.
    Circa 800 mila pensionati (il 5,12%) usufruiscono della pensione o assegno sociale.
    Che cosa vuol dire?
    Che fino a 66 anni sono stati sconosciuti al fisco nel senso che non hanno mai pagato né contributi sociali e neppure le imposte dirette.
    Poi si sono palesati richiedendo l'assegno mensile in assenza di redditi.
    Uno Stato di diritto aiuta i più deboli, ma in altri paesi europei dopo una certa età (33/36 anni) si chiede al soggetto sconosciuto di che cosa vive, prendendo i relativi provvedimenti, come succede in Svizzera e Germania.
    Da noi no.
    E così, senza fare troppe domande, a presentazione di un ISEE che può essere anche discutibile, si paga a piè di lista senza conferire parola.
    Anzi, qualcuno propone pure di aumentare queste prestazioni assistenziali a danno delle pensioni più alte.
    Ci sono poi altri 2,9 milioni di pensionati (il 18,2%) che beneficiano dell'integrazione al minimo di 513 euro al mese.
    Questi ex lavoratori sono stati parzialmente sconosciuti al fisco, in quanto in 67 anni di vita non sono riusciti nemmeno a versare 15/17 anni di contribuzione.
    Che hanno fatto nei trent'anni precedenti?
    Anche qui nessuna domanda, ISEE e pagamento a piè di lista.
    Poi ci sono circa 800 mila altri pensionati (il 5%) che sono in una situazione uguale a quella precedente, ma che per legge prendono la maggiorazione sociale di 630 euro al mese per 13 mesi.
    Anche qui stesso discorso: pagamento a domanda.
    Siamo così arrivati al 28,3% dei pensionati che, come si sarà capito, non hanno subito un'ingiustizia sociale, ma beneficiano di un sussidio, perché per 66 anni di vita non hanno pagato tasse e contributi.
    Poi abbiamo ancora circa 160 mila pensioni di guerra (l'1%), relative al conflitto finito nel 1945.
    Ovviamente sono pensioni basse, anche perché molte sono a beneficio dei superstiti.
    A buona parte di questi pensionati, circa 2,4 milioni con una prevalenza di donne, viene erogata la cosiddetta 14° mensilità che, assieme ad altre prestazioni assistenziali, aumenta un pochino le pensioni di cui sopra.
    Ci sono infine 2.743.988 prestazioni di invalidità civile (17%), di cui oltre 582 mila che hanno solo la pensione di invalidità, oltre 1.764.000 con la sola indennità di accompagnamento, e 397 mila percettori di entrambe le prestazioni, che si sommano ai circa 1,158 milioni di invalidi previdenziali Inps (7,2%) e alle 716 mila prestazioni Inail per le inabilità o invalidità da infortuni sul lavoro.
    Sono tutte pensioni modeste, anche se spesso integrate con l'indennità da accompagnamento per i non autosufficienti: totale generale delle pensioni sotto i mille euro, 53%.
    L'Istat dovrebbe anche spiegare ai cittadini che per circa 8 milioni di pensionati su 16 milioni, non ci sono pensioni ma benefici assistenziali sui quali non gravano imposte.
    L'Irpef, circa 50 miliardi, grava sul 40% dei pensionati che prendono più di 1.200 euro al mese, e soprattutto su quel 24,7% di ex lavoratori con prestazioni da 2 mila euro in su; cioè sulle pensioni vere, pagate con tasse e contributi da chi le percepisce.
    Poiché sono in pagamento circa 23 milioni di prestazioni per 16 milioni di pensionati, significa che ogni pensionato prende in media 1,42 prestazioni, e che l'importo medio è pari a oltre 18 mila euro l'anno.
    Se poi escludiamo le pensioni assistenziali, l'importo medio delle pensioni vere passa a 25.590 euro annui lordi.
    Identiche considerazioni per le donne: è vero che hanno redditi mediamente più bassi(non solo in Italia per la verità), ma se consideriamo che l'80% delle pensioni di reversibilità è rosa, sapendo che nel migliore dei casi l'importo di queste prestazioni è il 60% della pensione originaria, la media non può che essere più bassa.
    Peccato che tutte queste cose non si sentano alla tv in prima serata.
    Alla luce di tutto questo, è inutile dire che il sistema previdenziale italiano è quanto mai precario.
    Urge, quanto prima, pensarci privatamente.
  • 5 - IL PRIVATE EQUITY: UNA NUOVA OPPORTUNITA' DI INVESTIMENTO

    Il Private Equity (PE) è un'attività di investimento in capitale di rischio di aziende normalmente non quotate, e caratterizzate da un elevato potenziale di crescita.
    Tecnicamente un soggetto (generalmente un investitore istituzionale) rileva quote di una società obiettivo, acquisendo sia azioni esistenti da terzi sia sottoscrivendo azioni di nuova emissione, apportando così nuovi capitali all'interno della stessa società.
    La società obiettivo può valutare l'idea di aprire il suo capitale, in minoranza o in maggioranza, in cambio di un partner che porti in dote capitali per lo sviluppo, ma anche più ampie relazioni per un importante progetto di crescita futura.
    Si tratta di una forma di investimento di medio-lungo termine con il conseguente obiettivo di guadagnare in conto capitale dalla vendita della partecipazione acquisita, o dalla quotazione in borsa dell'azienda.
    L'attività di PE non si realizza unicamente con l'apporto di capitale di rischio, ma spesso si completa con una serie di attività funzionali alla realizzazione dell'idea imprenditoriale.
    Rilevante è allora l'apporto professionale dell'investitore nelle decisioni strategiche delle società investite, grazie alle proprie conoscenze ed esperienze professionali maturate anche a livello internazionale.
    All'imprenditore e al management viene lasciata la gestione operativa, mentre all'investitore va di solito il disegno strategico e la maggiore visibilità nazionale e internazionale dell'impresa.
    Se l'investimento in PE ha successo, l'investitore esce dopo aver raggiunto il suo scopo di creazione di valore.
    Nel caso invece di insuccesso, l'investitore abbandona dopo essersi reso conto che non è più possibile risolvere la situazione di crisi e creare così ulteriore valore.
    L'uscita dall'investimento può avvenire mediante:
    - quotazione in Borsa dell'azienda partecipata
    - vendita dei titoli aziendali ad un'altra società o ad un investitore istituzionale
    - riacquisto della partecipazione da parte del gruppo imprenditoriale originario
    - vendita a nuovi e vecchi soci
    Il PE è una forma di investimento illiquida caratterizzata da una durata prefissata.
    Non è possibile per l'investitore uscirne anticipatamente.
    Gli investimenti illiquidi consentono una migliore diversificazione del portafoglio.
    Infatti, in un mondo globalizzato con correlazioni tendenzialmente tutte positive, inserire in portafoglio asset class meno influenzate dalla generale correlazione è un vantaggio importante.
    L'inserimento di asset class illiquide migliora quindi l'efficienza del portafoglio, contribuendo a maggiori performance e riducendo la volatilità.
    Gli investimenti in PE sono degli ottimizzatori efficienti, perché godono di una minor correlazione con l'andamento dei mercati.
    La loro non liquidabilità prima della scadenza, permette di evitare alcuni errori che, come insegna la finanza comportamentale, possono verificarsi in varie fasi dell'investimento.
    Il PE consente di avere maggior rigore e disciplina nella gestione del portafoglio.
    L'economia reale, le piccole e medie imprese non quotate, rappresentano il vero cuore dell'investimento in PE.
    Agli albori, il mestiere del private equity veniva svolto da imprenditori soli, o al massimo organizzati in società finanziarie, alla ricerca di nuove idee da finanziare e nuove tecnologie su cui scommettere fornendo capitali utili alla partenza e allo sviluppo.
    Nel tempo, a questi uomini d'impresa (più che di finanza) si affiancarono finanziarie bancarie.
    Negli anni 90 sono poi comparsi i primi fondi chiusi che nel tempo si sono sviluppati in varie forme di private capital (private nel senso di non quotato, capital nel senso di capitale in senso lato).
    Se il PE guarda alle imprese già strutturate e con importanti fatturati, ad alto potenziale di crescita e sviluppo, il venture capital guarda invece a quelle aziende in fase iniziale, start-up sempre con un elevato potenziale di sviluppo.
    Se le principali operazioni di private equity trovano oggi sostegno dal settore previdenziale e dagli investitori istituzionali (Società di Gestione del Risparmio, Fondi e Sicav), è anche vero che negli ultimi anni gli investitori individuali sono stati particolarmente attratti da operazioni di questo tipo con l'obiettivo di diversificare maggiormente il portafoglio e ottenere anche nel tempo migliori performance.
  • 6 - TUTTE INSIEME NON VALGONO TESLA

    L'auto del futuro è già nel cuore (e nei portafogli) degli investitori.
    La ciliegina sulla torta potrebbe arrivare a breve: l'ingresso nel più esclusivo club finanziario al mondo, ovvero l'indice azionario americano S&P500.
    Per Tesla sarebbe un nuovo record, dopo quello raggiunto pochi giorni fa in Borsa con la capitalizzazione di 281 miliardi di dollari, oltre 1.500 per azione.
    Il titolo ha debuttato nel mercato finanziario poco più di 10 anni fa, era il 30 Giugno 2010, al prezzo di 17 dollari.
    Una corsa inarrestabile che ha portato la società su valutazioni superiori a quelle di tutte le case automobilistiche al mondo.
    Come detto, 281 miliardi di dollari di capitalizzazione per Tesla, contro i 207 di Toyota e i "soli" 84 di Volkswagen.
    Il confronto con le case europee è impietoso: tutte insieme non valgono come Tesla.
    Se dieci anni fa avessi investito 100 euro nell'indice MSCI World Automobiles (raggruppa le azioni di aziende a media e grossa capitalizzazione nel settore automobilistico in 23 paesi sviluppati e in 26 in via di sviluppo), oggi ti troveresti con un controvalore di 177 euro. 
    Lo stesso investimento fatto su Tesla avrebbe generato invece un controvalore superiore ai 6 mila euro.
    Attualmente l'azione Tesla prezza 6.348 volte gli utili registrati lo scorso anno, e 166 volte gli utili attesi nel 2020.
    Forse troppo?
    Elon Musk, grazie a questa performance stellare, è ufficialmente entrato nella top 10 della classifica Bloomberg dei miliardari mondiali, collocandosi al settimo posto e scalzando nientemeno che Warren Buffet sceso al decimo.
    Ma osservandole con gli occhi della prospettiva industriale, le cose si ribaltano.
    Nel 2019 la casa automobilistica statunitense ha prodotto 400 mila veicoli, per un controvalore totale dei ricavi pari a 24,6 miliardi di dollari.
    Toyota fattura 278 miliardi per un utile di 20.
    Nello stesso periodo i brand europei avevano prodotto 28,5 milioni di auto per un fatturato complessivo di 840 miliardi di euro.
    La sfida potrebbe continuare su molti altri parametri ma il risultato non cambierebbe: Tesla vince in Borsa, mentre le case automobilistiche tradizionali dominano ancora il mercato commerciale.
    A guidare la crescita di Tesla c'è sicuramente il posizionamento strategico della società che, per prima e con grande coraggio, ha puntato su motori totalmente elettrici.
    Per gli altri la transizione è in corso con risultati altalenanti.
    La coerenza del modello di business in Borsa ha pagato, anche se i risultati, in termini di flussi di cassa, ancora tardano ad arrivare.
    Come detto, sul piano borsistico in Europa nessuno, per ora, tiene testa alla società fondata dal vulcanico Musk.
    Bmw perde poco più del 20% da inizio anno, la peggiore è invece Renault che lascia sul terreno quasi il 50%.
    Fca registra da inizio anno un -32%, in linea con la perdita registrata dalla promessa sposa Peugeot.
    In entrambi i casi le valutazioni non raggiungono neanche la metà del fatturato, mentre Tesla sfiora le 10 volte.
    La concorrenza non ha però tardato a farsi sentire.
    La start-up Rivian, supportata da Amazon e Ford Motor, mira a mettere in produzione un pick-up elettrico e SUV nel 2021, e ha ulteriormente potenziato la sua cassa con un round di finanziamenti da 2,5 miliardi di dollari.
    Notizia, questa, che segue la recente quotazione in Borsa di Nikola, che punta invece al mercato dei veicoli commerciali con motore elettrico a batteria e con motore a idrogeno (un business per ora teorico visto che ancora non è stato consegnato il primo veicolo).
    Società, questa, in cui ha messo lo zampino, con una partecipazione di poco inferiore al 10%, anche Cnh, società controllata dalla holding Exor della famiglia Agnelli, sorella quindi di Fca.
    Per Fca, che nel frattempo ha conquistato la posizione di leader in Sud America con una quota di mercato complessiva prossima al 16%, la sfida all'auto del futuro passa dalla duplice alleanza con Peugeot e con Enel X per l'implementazione di un'infrastruttura di ricarica per veicoli elettrici.
    La ragione è semplice: in Europa, nei primi tre mesi dell'anno, mentre le immatricolazioni totali di autoveicoli hanno registrato un forte calo, le auto elettriche e ibride non hanno subito la contrazione del mercato.
    Se il futuro dell'auto guarderà allora sempre più all'elettrico, è altrettanto vero che certi prezzi di mercato sembrano fin troppo esagerati e incongruenti con i veri numeri aziendali sottostanti.
    Sarà allora solamente una frenesia speculativa quella in atto su Tesla, o c'è qualcosa di solido e concreto dietro questa sua crescita stellare sotto l'aspetto finanziario?
  • 7 - NELLE NUVOLE LA TEMPESTA PERFETTA

    Non è più solo un'esigenza di archiviazione, un fatto di mero storage insomma.
    Se c'è una cosa che l'emergenza sanitaria mondiale ha insegnato alle imprese grandi, piccole e di qualsiasi settore, è che per assicurare la continuità operativa e sostenere il business anche in un contesto di ridotta mobilità di merci e persone, a cui si è sovrapposta una conseguente polverizzazione dei luoghi fisici dove le persone prendono le decisioni (lo smart working), poter fare affidamento su una infrastruttura digitale attraverso cui veicolare i propri dati (ordini, consegne, flussi, comunicazioni) sta facendo la differenza.
    L'accelerazione impressa dal Covid-19 alla domanda di servizi in cloud è evidente scorrendo i conti economici dei principali provider, da Aws (Amazon) a Google, da Ibm a Oracle, da Microsoft a Sap fino ad Alibaba, principale player per il Far East.
    A livello globale il giro d'affari della gestione dei dati sulla nuvola è passato dai 197 miliardi di dollari del 2018, ai 228 del 2019.
    Una curva che si prevede in rialzo a 266 miliardi per quest'anno, e a 308 per il 2021.
    Scenario, questo, pre-Covid, che andrà ora rivisto al rialzo.
    Nel primo trimestre dell'anno gli investimenti in servizi cloud hanno registrato una crescita del 34% rispetto allo stesso quarto del 2019 (analogo anche il trend del mercato italiano in merito), spinti in particolare dalla domanda di soluzioni per implementare il telelavoro, la collaborazione online, il consumer care e l'e-commerce.
    A mantenere la posizione di testa è Aws, che copre quasi un terzo del mercato mondiale (32%) e che ha visto le vendite crescere del 33% fra Gennaio e Marzo.
    Segue Microsoft Azure, il cui fatturato è cresciuto del 59% nel primo quarto raggiungendo una quota di mercato del 17%.
    In terza posizione Google Cloud, tallonata da Alibaba.
    Il cloud è diventato uno strumento essenziale per la continuità del business in questo difficile momento.
    Molte aziende sono passate al public cloud (cedendo cioè a operatori terzi la gestione dei propri flussi), e piattaforme come Zoom non sarebbero state in grado di funzionare se non avessero potuto contare sulle infrastrutture messe a disposizione dai più importanti player.
    Aws in Aprile ha aperto due nuovi data center, uno a Milano e uno a Città del Capo, annunciando altre aperture per i trimestri a venire.
    Google ha da poco deciso di aprirne quattro, in Asia, Canada e Medio Oriente, mentre Alibaba ha in programma investimenti per 28 miliardi di dollari nei prossimi tre anni.
    Se le limitazioni della mobilità hanno costretto milioni di famiglie in casa per settimane, facendo così impennare il traffico dei contenuti, il grosso della fetta del business riguarda tuttavia le imprese.
    Benvenuti allora in quella che molti già definiscono come la quarta rivoluzione industriale.
    Una rivoluzione che sarà in grado di impattare in maniera importante anche i mercati finanziari.
    Una rivoluzione in cui i dati definiranno sempre più il futuro del lavoro, e lo faranno in un ambiente cloud.
  • Tra due settimane, nel prossimo numero della mia 7 Notizie in 7 Minuti, ti parlerò, tra le altre cose, delle Banche Centrali e della loro operatività, del riscatto di Laurea e delle Bolle Finanziarie.
    A presto allora, sereno fine settimana!

    Davide