Non è passato molto tempo, due mesi e mezzo circa, da quando il prezzo del petrolio, per la prima volta nella sua lunga storia, è andato negativo.
Il 20 Aprile un barile di greggio americano, il WTI, ha toccato per qualche minuto quota -37 dollari sul mercato dei futures.
All'inizio dell'anno quotava a 61 dollari, 100 sopra.
Ora la situazione sembra essersi nuovamente capovolta: la riapertura delle economie dopo il lockdown, e gli accordi tra i paesi Opec+ (il cartello allargato dei petro-stati) hanno spinto le quotazioni di nuovo intorno ai 40 dollari.
Il saliscendi verosimilmente continuerà, ma chi ne ha fatto le spese?
E soprattutto, qualcuno ci ha guadagnato e magari ci guadagnerà ancora?
Anche se un economista liberale come John Kenneth Galbraith diceva che ogni tanto la Borsa si incarica di separare il denaro dagli stupidi, questa volta il crollo del mercato petrolifero causato dalla pandemia e dalla recessione ha prodotto danni tangibili
su più fronti.
Negli Stati Uniti, primo produttore mondiale, già 17 compagnie hanno dichiarato bancarotta.
Secondo gli analisti si potrebbe però arrivare a 73 prima della fine dell'anno, e se i prezzi del barile rimarranno tra i 30 e i 40 dollari, altre 170 società potrebbero subire la stessa sorte nel 2021.
Un problema non da poco per il sistema economico e finanziario americano.
Ma anche un grosso problema politico per il presidente Donald Trump in cerca di riconferma a Novembre, già scosso dall'incerta gestione del virus e dagli scontri nelle piazze delle ultime settimane.
E un rebus non minore anche per i paesi produttori, che confidano nelle entrate petrolifere per far quadrare i propri conti pubblici.
Per essere in pareggio l'Iraq necessita di almeno 60 dollari al barile, l'Arabia di 76, la Russia di Putin di 42 dollari.
Tra i tanti che ci hanno rimesso dei quattrini ci sono poi tutti quei risparmiatori che hanno investito negli Etf, i fondi che seguono passivamente l'andamento di indici o materie prime, come appunto il greggio.
Il più famoso, lo US Oil Fund, fino a poco tempo fa aveva già perso il 70% del suo valore.
Gli enti preposti alla vigilanza del mercato finanziario americano, Sec e Cftc, stanno indagando per verificare se i rischi per gli investitori siano stati evidenziati correttamente, ma intanto il fondo sta emettendo nuove quote per un altro miliardo
di dollari.
Quando si passa dal petrolio "fisico" a quello "di carta" le prospettive cambiano, e di molto.
Soprattutto quanto alle dimensioni.
Prima della pandemia sul pianeta si consumavano ogni giorno circa 100 milioni di barili di petrolio, poi scesi a 70, per poi tornare a fine anno probabilmente intorno ai 90 milioni.
Sul Nymex, il mercato dei futures sui prodotti energetici, nel primo trimestre 2020 risultavano mediamente aperti alla fine di ogni giornata 2,2 milioni di contratti.
Considerando che ogni contratto è pari a 1.000 barili di petrolio, si arriva a 2,2 miliardi di barili, ovvero a 22 barili "di carta" per ogni barile "fisico".
Il tutto senza considerare gli scambi all'Ice, il mercato future europeo sul Brent, la qualità petrolifera del mare del Nord.
Morale: il rapporto a leva 22 a 1 potrebbe addirittura raddoppiare.
E' su questo terreno che si gioca la partita vera della speculazione, mentre andamenti e previsioni sul mercato fisico servono solo come spunto di partenza.
Ed è nel mondo dei barili "di carta" che a farla da padroni sono le grandi trading companies internazionali.
Hanno sede a Ginevra, Londra, nei paradisi fiscali caraibici, e movimentano miliardi di dollari ogni giorno.
Sono gruppi privati, banche d'affari, filiali delle grandi compagnie oil&gas, da Shell, fino a Total, Bp e Aramco, a muovere volumi di petrolio multipli di quanto estraggono materialmente dal sottosuolo o dai fondali marini.
C'è una certa differenza tra chi cerca di interpretare gli andamenti del mercato, e chi invece quel mercato lo fa.
Ecco, le trading companies sono il mercato.
Difficile conoscere i loro reali guadagni, spesso inaccessibili o diluiti all'interno di differenziati conti economici.
Quello che è certo è che fanno profitti non sulla base del valore assoluto del prezzo del petrolio, ma della sua volatilità, di quanto sale e di quanto scende.
E se è proprio la volatilità la loro importante occasione di profitto, c'è da scommettere che siano tutte già pronte a cavalcare la nuova ondata, quella del possibile rialzo.
I segnali già ci sono: ripresa dei consumi di benzina e gasolio, l'arrivo dell'estate.
Con le riaperture anche il jet fuel, il prezioso cherosene per gli aerei (è solo al 5% di un barile di petrolio) tornerà ad essere al centro della domanda.
Ma tutti questi carburanti non potranno tornare disponibili con uno schiocco delle dita.
Molte delle raffinerie che li producono sono ferme o lavorano a ritmo ridotto, e per tornare a pieno regime servirà tempo.
Insomma, la domanda di prodotti e di petrolio potrà impennarsi prima che l'offerta sia pronta a soddisfarla.
I prezzi potrebbero così salire e la volatilità nuovamente aumentare.
E con essa, come sempre, i profitti dei signori dei barili di carta.
Materie prime?
Meglio starne fuori, o approcciarle con tutte le dovute attenzioni.
Questo il mio personale parere.