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www.davideberto.it2024-10-11
  • Il denaro va visto come un mezzo per raggiungere un obiettivo.
    Non trovi?
    Anche per questo, libri e trasmissioni che si occupano di economia e finanza difficilmente hanno presa sul pubblico.
    Parlano del mezzo e non di ciò che alle persone davvero interessa: se stessi.
    Spostare l'attenzione dal denaro a ciò che con il denaro possiamo realizzare nelle nostre vite può fare tutta la differenza del mondo.
    Prova a chiederti allora questo:
    1. Conosco il motivo (o i motivi) per cui sto mettendo da parte dei soldi?
    2. Conosco la strada da seguire per accantonare abbastanza per ognuno dei motivi stessi?
    3. Conosco per ogni motivo quanti soldi dovrò avere a disposizione?
    4. Conosco quando quei soldi dovranno tornare tra le mie mani?
    5. Conosco cosa accadrà a quel denaro il giorno in cui io non ci sarò più?
    In questi cinque punti interrogativi non si può forse concentrare tutta la capacità di assicurare finanziariamente il futuro di persone e famiglie e, perché no, anche di moltissime delle imprese che a persone e famiglie danno lavoro e nutrimento?

    Ti auguro una piacevole lettura!
  • 1 - EVITATA PER ORA LA SERIE B

    Il debito italiano chiude la stagione primaverile dei rating restando in area Investment Grade per tutte e quattro le agenzie internazionali.
    E' questo il risultato principale, arrivato Venerdì 8 Maggio, con la conferma da parte di Moody's che non ha modificato l'etichetta "Baa3" sui nostri titoli di Stato.
    Conferma importante perché si tratta dell'ultimo scalino prima del girone dei Junk Bond (titoli spazzatura).
    Stesso scalino che il nostro debito già occupa per Fitch, dopo il downgrade a "BBB-" arrivato un pò a sorpresa a fine Aprile, mentre nella scala di S&P rimane un altro gradino di sicurezza alla luce della conferma del 24 Aprile.
    I titoli italiani restano lontani dall'area più critica anche per la quarta agenzia, la canadese Dbrs, che resta la più generosa fra i giudici del debito tricolore.
    Il fatto che Moody's non affondasse il colpo era dato quasi per scontato, perché alcune settimane prima la stessa agenzia aveva sostenuto in un report che la crisi da Covid spingerà il debito italiano "a livelli record", ma "l'affidabilità creditizia del Paese non dovrebbe subire ricadute".
    Le previsioni UE per il 2020 prevedono un debito italiano al 159% del Pil (era al 134,8 l'anno scorso), con i Paesi europei che passeranno da 3 a 7 sopra la barriera del 100%.
    Tanta sicurezza sull'affidabilità creditizia è legata in gran parte ai costi di finanziamento che rimangono relativamente bassi grazie all'ombrello Bce, grazie agli interventi in cantiere a Bruxelles, e all'ipotesi di un'economia in ripresa dal terzo trimestre.
    Proprio questa considerazione indica che gli appuntamenti decisivi sono solo rinviati all'autunno, quando torneranno ad esprimersi le quattro agenzie.
    Nonostante l'Italia abbia evitato il pericolo di cadere negli inferi dei rating "spazzatura", il Paese resta in una posizione scomoda.
    Il debito pubblico, come visto, è in forte aumento, e due agenzie (Moody's e Fitch) lo valutano oggi nell'ultimo gradino del campo sicuro dei rating Investment Grade.
    L'Italia è insomma sul crinale, a un passo dal mondo dei Junk Bond.
    Certo, se brucia la casa non si può andare per il sottile e si spegne l'incendio.
    Al debito pubblico ci si penserà dopo, giusto, ma ci si dovrà però pensare per evitare che a una crisi sanitaria ne subentri un'altra, economica e sociale, ugualmente dura e forse ingestibile.
    Se questo oggi non sembra essere un problema per la Bce (guarda solo al migliore dei quattro rating e continua comunque a lanciare messaggi favorevoli al futuro acquisto di titoli "spazzatura"), un futuro declassamento potrebbe diventare un serio problema sui mercati finanziari.
    Non certo perché le agenzie di rating siano oracoli infallibili (tutt'altro, come la storia insegna), ma perché moltissimi investitori sui mercati obbligazionari guardano ai rating emittenti come unico parametro per definire cosa possono o non possono detenere in portafoglio.
    E' il mercato a dare importanza ai rating e a renderli determinanti nel destino di un Paese.
    Il problema nascerebbe allora se l'Italia scendesse nel campo "speculativo" (o spazzatura).
    Cosa possibile nel medio termine.
    Una caduta potrebbe far scattare vendite forzate di Btp da parte di molti investitori che non potrebbero più detenerli in portafoglio.
    Non sarebbe una scelta, ma per alcuni investitori vendere Btp sarebbe un obbligo.
    Per un Paese che ha sempre più bisogno di reperire finanziamenti sui mercati, questo sarebbe un grosso problema.
    Perché è vero che esistono molti altri fondi specializzati in bond "spazzatura", ma è anche vero che il mercato di questi titoli è più piccolo e l'Italia ha un debito molto grosso.
    Servirebbero però due declassamenti a "spazzatura" per creare questo turbine di vendite, non basta una sola agenzia.
    Certo, il mercato spesso anticipa, e potrebbe iniziare a portarsi avanti dopo un solo declassamento, ma ancora un pò di margine il nostro Paese oggi ce l'ha.
    Quando la pandemia sarà finita, e con essa anche il programma straordinario di acquisti della Bce, questo poco margine peserà.
    A meno che la Bce stessa non tiri fuori dal suo cilindro qualche altro coniglio.
    Il mio personale punto di vista?
    Credo sia il caso di evitare investimenti nel nostro debito pubblico.
    Il rapporto rischio/rendimento potenziale non è assolutamente congruo considerando un rischio (a mio parere) elevato, a fronte di tassi di interesse molto marginali.
  • 2 - INVERNO DEMOGRAFICO, INFERNO PREVIDENZIALE

    Partiamo da qui: i dati dei Paesi avanzati ci dicono che le persone, vivendo più a lungo ed avendo maggiore ricchezza, tendono mediamente a fare meno figli.
    In alcune nazioni come la nostra, l'indice di natalità è sceso a 1,32 figli per famiglia, ben al di sotto del livello di sostituzione pari a 2,1.
    In passato, contadini e artigiani cercavano di avere il maggior numero possibile di figli.
    Era l'epoca del Welfare Family: ogni nuovo figlio forniva braccia in più e assicurava sostegno per i duri anni della vecchiaia.
    Nella transizione al Welfare State, quando contadini e artigiani si sono trasformati in operai e impiegati, con uno stile di vita più agiato e con una sicura pensione pubblica, l'equazione si è rovesciata.
    Anche per colpa della crisi, meno figli vogliono dire più benessere.
    Ecco perché siamo sotto la scure dell'inverno demografico: con soli 440 mila nati in Italia nel 2019 (meno della metà dei morti), la popolazione sta diminuendo e invecchiando.
    Con la sola eccezione degli Stati Uniti, il trend riguarda più o meno tutti i Paesi industrializzati.
    Diciamolo chiaramente: la ricchezza è il più efficace contraccettivo del mondo.
    Senza dimenticare che, negli stessi stati industrializzati, crescono rapidamente l'aspettativa di vita, la durata della vita in salute e, quasi sempre, l'età del pensionamento.
    Ma l'aumento dell'età media diventa drammatico se si coniuga, come in Italia e in Giappone, con il crollo delle nascite e con la diminuzione della popolazione.
    E' un ulteriore passaggio epocale che ci porta dall'inverno demografico all'inferno previdenziale.
    La causa è chiara: in un sistema a ripartizione come il nostro (gli occupati pagano la pensione ai non occupati), scende troppo rapidamente il rapporto tra soggetti in età lavorativa e soggetti che invece dipendono dalle persone che lavorano (bambini, adolescenti, pensionati, non occupati).
    Un vero e proprio vicolo cieco.
    La sfida più importante sarebbe tornare allora a fare figli, incentivando massicciamente la maternità.
    Una missione difficile in un Paese ricco come il nostro.
    Non dimentichiamo infatti che siamo nel complesso la terza ricchezza privata netta al mondo, nonostante la crisi e la scarsissima crescita storica del Pil.
    4.300 miliardi investiti sui mercati finanziari e 6.400 miliardi di patrimonio immobiliare.
    Anche perché, nel nostro mercato del lavoro, l'occupazione femminile è alternativa alla vocazione alla maternità.
    La spesa per l'assistenza erogata dall'Inps aumenta di quasi il 6% all'anno, senza coperture e sempre a carico della fiscalità generale.
    Quella delle pensioni in generale sarà allora sempre più una sfida incerta.
    Facciamo due conti.
    Spesa totale 2017: 285 miliardi di euro, di cui spesa per assistenza 85 e spesa per pensioni 200, al netto delle pensioni degli statali e dei lavoratori dello spettacolo.
    Copertura delle gestioni previdenziali: 178 miliardi circa.
    Differenza annua a carico della fiscalità generale: 107 miliardi.
    Differenza sulle pensioni tra quanto si incassa e quanto si paga: 23 miliardi di euro largo circa.
    I dati non comprendono, come detto, dipendenti pubblici e lavoratori dello spettacolo.
    Che significa?
    Che lo Stato versa solo a fine carriera i loro contributi, ed è paradossale che proprio lo Stato sia il primo evasore contributivo, anche se solo per mera politica di bilancio.
    E' una partita di giro, dicono.
    Certo, lo potrebbe dire anche il privato.
    Te li verso solo quando il lavoratore va via, come per il TFR.
    Ma chi paga intanto le pensioni in un sistema a ripartizione come il nostro?
    La fiscalità generale, ossia le nostre tasse.
    E comunque tutte le varie gestioni, tranne la gestione separata, sono in perdita.
    Senza dimenticare l'evasione previdenziale con una massa di contributi accertati ma non incassati dall'Inps, a fine 2016, stimata pari a circa 104 miliardi di euro.
    Che fare allora?
    Pianificare in proprio.
    Per tempo.
  • 3 - LE COLONNE D'ERCOLE DEI TASSI NEGATIVI

    Per la politica monetaria i tassi negativi sono come il superamento delle Colonne d'Ercole, che finora ha però prodotto nei banchieri centrali due reazioni opposte: la Fed americana (la più importante Banca centrale al mondo) sembra non avere alcuna voglia di superarle, mentre la Bce europea, che le ha superate da tempo, sembra non riuscire più a tornare indietro.
    Un dilemma che per entrambe si accentuerà nei prossimi mesi, se la recessione pandemica continuerà.
    Nei giorni scorsi, nel mercato dei titoli legato all'andamento futuro dei tassi di riferimento della banca centrale americana, è emersa l'aspettativa di avere per la prima volta anche negli Stati Uniti tassi di interesse negativi.
    E' quest'ultimo un limite che finora la Fed non ha mai voluto sorpassare, e il presidente Powell lo ha ribadito anche di recente.
    Il fatto che ora, in alcuni mercati finanziari, sia stata considerata la possibilità che la banca centrale americana superi le Colonne d'Ercole ha acceso l'attenzione.
    Anche perché, dalla parte opposta dell'Atlantico, la Bce sta invece navigando da sei anni nel mare dei tassi negativi.
    Lo stesso sta facendo la Banca centrale giapponese, nonché quella svizzera e danese.
    La Banca centrale svedese ha invece terminato a Dicembre la sua esperienza nei mari del tasso negativo, e sembrerebbe che, nonostante la necessità di affrontare la pandemia, non sia intenzionata a tornarci.
    Ma perché le Colonne d'Ercole sono così importanti?
    Per le Banche centrali è vitale essere efficaci nell'influenzare il mercato delle riserve bancarie, perché esse rappresentano l'anello di congiunzione tra l'obiettivo che la Banca centrale persegue di volta in volta, l'effetto intermedio su risparmio e credito, quindi il risultato finale sulla domanda aggregata e sulla crescita economica.
    Oltre che con le operazioni dirette sui mercati finanziari, le riserve bancarie si possono influenzare definendo le condizioni a cui le banche possono variare le loro disponibilità di moneta presso la banca centrale, cioè rispettivamente la remunerazione delle riserve bancarie e il costo del credito della Banca centrale, date le caratteristiche delle relative garanzie.
    In tempi normali le riserve delle banche non dovrebbero essere remunerate, come non sono remunerati i contanti che ciascuno di noi ha nel suo portafoglio, mentre le banche dovrebbero pagare un costo per avere credito dalla banca centrale.
    Questo implica che i tassi di interesse siano sempre positivi.
    Ma dal 2008 sono iniziati i tempi straordinari.
    Sia la Fed che la Bce hanno progressivamente realizzato che occorreva mettere in campo politiche monetarie eccezionalmente espansive.
    Ma le scelte strategiche delle due banche centrali sono state diverse.
    La Fed ha deciso che le Colonne d'Ercole non andavano varcate, mentre la strategia della Bce è stata diversa.
    Certo, superare le Colonne d'Ercole porta a navigare in mari ignoti, e per quanto tempo si può navigare in acque ignote?
    La politica dei tassi negativi è una politica non convenzionale, e, in quanto tale, dev'essere temporalmente limitata.
    L'improvvisa recessione pandemica ora ne sta allungando l'utilizzo.
    La Bce non sa più come e quando tornerà verso le Colonne, ma è convinta di non avere altra rotta possibile per essere fedele al mandato di tutelare la stabilità monetaria dell'Unione, la sua Itaca.
    Di certo la politica monetaria non può e non potrà risolvere problemi strutturali come la mancanza di produttività o le interruzioni nella catena di produzione.
    La liquidità delle banche centrali non sarà un aiuto universale.
    L'Odissea continua ...
  • 4 - BORSE, ORO, BOND: 7 ERRORI DA EVITARE

    Dopo il tonfo e il successivo rimbalzo, dove sono dirette le Borse?
    Wall Street e le altre piazze riusciranno a riagguantare velocemente i picchi di metà Febbraio, o dovranno subire altri colpi prima di rialzarsi?
    Nessuno può dire con certezza dove saranno i listini tra uno o tre mesi.
    Ma in pochi dubitano che, su un orizzonte più lungo, riprenderanno quota.
    L'ultima crisi può allora essere l'occasione per risintonizzarsi sulle giuste frequenze dei mercati, liberandosi di alcuni falsi miti che tendono a distorcere in modo sistematico le nostre decisioni di investimento.
    O magari, mettendo in discussione certi "dogmi" di mercato che meriterebbero di essere ridimensionati a semplici regole, perché, come tali, presentano delle eccezioni.
    1) I Bund (titoli di Stato tedeschi) sono privi di rischio.
    Non è completamente vero in quanto dipende da qual'è il rischio preso in esame.
    Perché se la solidità dei titoli del Tesoro tedesco è fuori discussione, i prezzi possono subire oscillazioni anche molto violente.
    Un aumento dei tassi pari a 50 punti base, come quello osservato a Marzo nell'arco di 10 giorni, si traduce in una perdita in conto capitale di circa 5 punti percentuali sul Bund decennale.
    Senza dimenticare poi che il Bund a 10 anni ha oggi un tasso negativo dello 0,5% a cui occorre aggiungere l'inflazione.
    2) Le obbligazioni sono un sicuro rifugio quando le Borse crollano.
    Di quali bond stiamo parlando?
    Il mondo obbligazionario è molto vasto, e mentre i titoli governativi dei paesi più solidi si sono comportati bene anche nell'ultima fase di mercato orso (in discesa), non si può dire altrettanto per le emissioni societarie (corporate) di buona qualità (Investment Grade).
    Oggi i panieri di riferimento del mondo Investment Grade sono sovraccarichi di titoli BBB, nell'ultimo gradino dell'universo di buona qualità.
    Un portafoglio bilanciato di azioni e obbligazioni, basato su fondi che investono sul mercato intero o quasi, riduce comunque i rischi e nel tempo paga.
    3) A lungo termine gli Emergenti battono i mercati sviluppati.
    La storia degli ultimi 10 anni dice invece il contrario: l'indice azionario dei mercati emergenti globali (MSCI Emerging Markets) ha consegnato una performance annualizzata del 2,9% contro il 9,3% dell'indice azionario globale (MSCI World).
    Se però allunghiamo lo sguardo fino ad abbracciare l'ultimo ventennio, l'esito del confronto si ribalta: il paniere emergente, con un rendimento medio annuo del 6,5%, supera le azioni dei paesi sviluppati (4,3%).
    Nel lunghissimo termine gli emergenti probabilmente faranno meglio, perché hanno superiori potenzialità di crescita che dovrebbero riflettersi anche sulle dinamiche di Borsa.
    4) Investire nei Paesi Emergenti equivale a puntare sulle commodity (materie prime).
    Falso. Oggi il settore più rappresentato nel paniere dei mercati emergenti è quello finanziario (21%), seguito dalla tecnologia (17%).
    Materiali di base ed energia valgono insieme solo poco più di un decimo del paniere stesso.
    Ricordiamoci che quando parliamo di mercati emergenti, il Pil della Cina pesa oggi per il 45% all'interno del Pil totale degli emergenti stessi.
    5) Le Borse europee sono dominate da banche ed energia.
    Falso. Dieci anni fa questi settori rappresentavano da soli un terzo dell'Eurostoxx 600, ma oggi l'healthcare (17%) pesa il doppio rispetto alle banche, mentre l'oil&gas vale il 4,5%, meno della tecnologia e delle utility (servizi di pubblica utilità come acqua, energia, telecomunicazioni ...).
    6) L'oro è un porto sicuro in fase di incertezza.
    Questo è tendenzialmente vero, ma ci sono delle eccezioni come dimostra anche il crollo di oltre 10 punti percentuali registrato a Marzo, proprio nel momento di massimo panico sui mercati.
    Si è trattato di un fenomeno transitorio dovuto a fattori tecnici (temporanea carenza di liquidità) che l'hanno mandato in tilt.
    Potrebbe accadere di nuovo.
    Superato il momento però l'oro è tornato a fare quello che ci si aspettava, ossia proteggere il capitale.
    7) Avere in portafoglio i migliori gestori di fondi è garanzia di buone performance.
    Falso, anche perché i rendimenti passati non sono mai indicativi di quelli futuri.
    Molti studi dimostrano inoltre che l'asset allocation, la costruzione quindi del portafoglio mattoncino per mattoncino, ha un ruolo più importante nel determinare le performance di portafoglio rispetto all'eventuale extra rendimento generato dal gestore attraverso la selezione dei singoli titoli.
  • 5 - FASCINO, STORIA E RESILIENZA DEL DOW JONES

    Quando pensiamo al mercato azionario americano, la mente oggi va subito all'S&P500 diventato negli anni il benchmark assoluto per l'equity a stelle e strisce.
    L'S&P (da Standard & Poor's, la società americana di ricerche e analisi finanziarie ideatrice dell'indice) è tuttavia un paniere relativamente giovane, risale infatti al 1957 quando è stato realizzato con l'obiettivo di costruire una rappresentazione delle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione di Borsa.
    Se vogliamo invece analizzare e capire come davvero si è comportato il mercato azionario americano sin dai suoi albori, è interessante utilizzare un altro indice, il cui fascino è ancora oggi inalterato, il Dow Jones Industrial Average, meglio noto semplicemente come Dow Jones.
    Il "DJ" debutta il lontano 26 Maggio 1986, e prende il nome dai suoi ideatori Charles Dow (fondatore del Wall Street Journal) e Edward Jones (statistico americano).
    Il fatto di avere una così ampia e profonda storicità, consente di ben capire come l'indice stesso si sia comportato in tutti gli scenari, anche i più estremi, ai quali è stato sottoposto.
    Alcune precisazioni però:
    - l'indice è abbastanza ristretto in quanto contiene solamente 30 aziende che sono, tuttavia, di dimensione, diffusione e fama, tali da consentire valutazioni su larga scala;
    - l'indice è costruito in modo tale che le aziende con il prezzo del titolo più alto, sono anche le più pesate nel paniere azionario.
    L'effetto distorsivo è tuttavia limitato.
    Guardando il grafico dal 1919 ad oggi, si può notare la violentissima caduta della Grande Depressione negli anni trenta (-80%), la crisi petrolifera negli anni settanta (-40% circa), e la doppia discesa dei primi duemila (-27,5%) e del 2008 (-34%).
    A livello statistico, si sono verificati 32 anni con rendimento negativo, e 69 con rendimento invece positivo.
    Il rendimento medio annuo dell'indice si è attestato al 7,88%, a fronte di una rischiosità però piuttosto importante.
    Questo significa che assistere a variazioni del "DJ" nell'ordine del (+ o -) 20% circa rispetto al suo valore medio, rappresenta un fatto piuttosto normale e privo di connotati di straordinarietà.
    In sostanza, chi investe in questo mercato, quello azionario USA, deve comprendere e mettere in conto che fino a questa soglia di oscillazione si rimane non solo nel novero del possibile, quanto piuttosto del probabile.
    Questo infatti è avvenuto nel 69% dei casi.
    Gli anni contraddistinti da perdite violente ed improvvise (superiori al 25%) sono stati 7 negli ultimi 101.
    Di questi, 5 relativi al periodo della Grande Depressione, 1 riguarda la crisi petrolifera, e solo il 2008 appartiene ai cigni neri moderni.
    Gli eventi estremi vanno allora semplicemente considerati come tali: momenti di forte allontanamento rispetto al sentiero maestro, di cui far tesoro.
    Questi dati non solo dimostrano la resilienza del Dow Jones (e di qualsiasi indice sufficientemente diversificato), quanto soprattutto la consapevolezza di come reagire positivamente di fronte ai picchi di rischio e rendimento, possa migliorare nel tempo i risultati ottenuti.
    Il concetto allora emerge forte: dal punto di vista finanziario, le cadute più violente del mercato sono una benedizione per chi investe.
    Ogni forte discesa può consentire di accorciare i tempi di realizzazione dei propri obiettivi, in quanto aumenta il premio per il rischio con cui l'investitore viene ricompensato.
    Da inizio 2020 il calo dell'indice è pari circa al 15%.
    Nessuno è in grado di conoscere profondità e durata della crisi, ma tutti sono nella condizione di scegliere cosa fare.
    Se, con l'interferenza dell'emotività, lasciar andare l'opportunità che si presenta e che sarà tanto più unica quanto maggiore sarà l'entità del ribasso.
    O invece se, aiutati dal lume della consapevolezza e della ragionevolezza, sfruttare la circostanza per trarne profitto come sempre si è verificato in passato.
    Un bivio, allora questo, da ricordare al prossimo storno, presto o tardi che si presenti.
  • 6 - I NUOVI PREDATORI

    Tra le vittime del Coronavirus non ci sono i cinque Big Tech americani.
    Anzi, la crisi li ha resi ancora più grandi, forti e popolari.
    Ma questo può diventare un boomerang dopo la fine dell'emergenza, motivando una nuova ondata di richieste per spezzare il monopolio che questi colossi esercitano oggi sulle vite di molti.
    Ora sono tre le aziende che valgono in Borsa oltre mille miliardi (un trilione) di dollari: Microsoft (1.360 miliardi circa, nuovamente ai massimi di sempre), Apple (1.330 circa, vicina ai massimi di mercato) e Amazon (1.180 miliardi, al top storico).
    Insieme alle altre due, Alphabet (Google) e Facebook, compongono il quintetto delle aziende più grandi al mondo, con una capitalizzazione totale che arriva a 5.223 miliardi.
    Tanto quanto l'intera economia del Giappone, terza potenza economica mondiale, o come la somma delle economie di Italia e Gran Bretagna ...
    Da quando lo scorso 13 Marzo è stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale negli Stati Uniti, la patria dei Big Tech e il loro primo mercato, le loro quotazioni sono risalite trascinando all'insù non solo il Nasdaq, indice dei titoli azionari tecnologici americani, ma anche l'indice generale S&P500, di cui i cinque colossi coprono addirittura un quinto del valore.
    Un record di concentrazione.
    Certo, l'enorme danno che il Covid sta causando sulle economie di tutto il mondo avrà un certo impatto negativo anche su ricavi e profitti dei Big Tech.
    Ma dalla loro possono contare su riserve liquide e posizioni di dominio tali da poter resistere meglio di tutti i concorrenti.
    Le loro tecnologie sono inoltre indispensabili sia agli individui, sia alle aziende per sopravvivere nel "nuovo mondo post Coronavirus".
    Basti pensare ai "servizi nella nuvola" di Amazon, Microsoft e Alphabet, grazie ai quali le aziende possono continuare a funzionare anche con i dipendenti operativi da casa.
    Allo shopping online di qualsiasi genere, dall'alimentare, ai vestiti, all'elettronica, possibile con Amazon mentre i normali negozi erano chiusi.
    Al mantenere poi i rapporti sociali con amici e parenti attraverso i network e le app di Facebook: Messenger, Instagram e WhatsApp.
    O ancora, ai servizi di streaming video e musica offerti da Apple, Amazon Prime e YouTube (Alphabet), mentre cinema, teatri e stadi sono forzatamente chiusi.
    I bilanci del primo trimestre hanno confermato la tenuta.
    Per Apple i risultati sono stati migliori delle stime degli analisti, con il calo delle vendite dell'iPhone compensato dal flusso di introiti generato dai 550 milioni di abbonati ai suoi servizi, l'ultimo dei quali è lo streaming di film e altri contenuti originali con Apple TV.
    Passando a Microsoft, il fatturato del cloud Azure sta crescendo del 60% annuo, insidiando il primato di Amazon.
    Ma intanto il business e-commerce di Amazon stessa è così florido che l'azienda di Bezos ha assunto 175 mila persone nelle ultime settimane per consegne ed altro (vedi 7 Notizie in 7 Minuti del 24.04).
    Lato Google e Facebook, invece, la pubblicità online è sicuramente calata da parte di alcune categorie di inserzionisti (settore turistico su tutti), ma aumentata da parte dei marchi che vendono direttamente online ai consumatori.
    Facebook ha visto crescere a 3 miliardi il numero di utenti e amici.
    Questa crisi sta decimando le startup e spingendo alla bancarotta molti concorrenti dei Big Tech che, con le casse colme di dollari, possono lanciarsi in interessanti acquisizioni a basso prezzo, aumentando ulteriormente la loro posizione dominante.
    Tutti buoni motivi questi, cui va aggiunta la tutela per la privacy, perché cresca fra i politici e le autorità di controllo l'ala intransigente che chiede misure antitrust.
    "Non possiamo stare a guardare che Amazon, Facebook, Google e gli altri divorino tutti gli innovatori nella nostra economia" affermano alcuni senatori americani.
    Non importa quanto i Big Tech siano popolari e amati dal pubblico, "In America abbiamo una storia di sfide anche contro le aziende più popolari se violano la legge. Dopo il Coronavirus, alcuni rivenditori e distributori di contenuti online saranno ancora più dominanti. Dovremo affrontare questo problema".
    Nel frattempo il loro potere (e il valore dei loro titoli azionari) continua a crescere verso nuovi massimi e oltre.
  • 7 - DALLA ROBOTICA ALLA COBOTICA

    Se guardiamo alla robotica attuale, e a questa ci aggiungiamo il digitale e soprattutto l’intelligenza artificiale, arriveremo alla collaborazione fra uomo e macchina, la cobotica.
    Se i robot industriali sono ormai da anni una presenza radicata anche nelle nostre imprese manifatturiere, la grande sfida che c’è davanti è proprio quella di sviluppare nuove applicazioni che permettano di creare valore aggiunto nella collaborazione fra uomini e macchine.
    Una sfida questa che potrebbe interessare non solo i grandi gruppi industriali che già hanno fatto dell’automazione il proprio modello organizzativo, ma anche le realtà medio-piccole finora rimaste al margine della quarta rivoluzione industriale.
    Diversamente infatti dalle classiche applicazioni della robotica industriale come il carico/scarico, la pallettizzazione, la saldatura, la verniciatura, la lavorazione dei materiali e l’assemblaggio, i nuovi cobot sono normalmente di piccole dimensioni, leggeri, privi di spigoli, facili da installare e, soprattutto, sono progettati per operare a fianco dell’uomo senza dispositivi di separazione o sensori di sicurezza: caratteristiche che abbattono in parte le barriere d’ingresso finora insuperabili per la piccola e media impresa.
    Il mercato della robotica industriale è stato caratterizzato a livello mondiale nell’ultimo quinquennio da tassi di crescita notevolissimi, fino a un vertiginoso +30% di vendite nel 2017 rispetto al 2016, per poi normalizzarsi nell’ultimo biennio in un comunque buono +6%, per un valore di vendite di 422mila unità.
    Un trend che sembra valere anche per l’Italia, dato che nel 2018 si sono registrate 9.800 unità vendute con una crescita annua del 27%.
    Personalizzazione sempre più spinta, impulso alla digitalizzazione, esigenze di miglioramento continuo della qualità dei prodotti e del lavoro in fabbrica sono le ragioni di tutto questo successo.
    Successo che, tra l’altro, non ha corrisposto, come spesso si tende a credere, a una diminuzione degli indici occupazionali, anzi.
    In tutti i paesi in cui vi è stato un massiccio inserimento di robot negli impianti produttivi, l’occupazione non è calata, ne ha tratto addirittura dei benefici.
    Il rapido sviluppo della robotica industriale ha infatti generato nuove mansioni per i lavoratori, e nuove figure professionali, sollevando l’uomo dalle cosiddette operazioni 3D (dull, dirty e dangerous, ovvero monotone, sporche e pericolose).
    I robot sostituiscono solo alcune delle attività lavorative.
    Si stima infatti che meno del 10% dei mestieri sia completamente automatizzabile.
    Uno dei temi di ricerca e trasferimento tecnologico di maggiore rilevanza oggi è allora quello di conferire intelligenza ai robot.
    La robotica di precisione aiuta le aziende a restare competitive anche producendo in paesi dove i costi sono più elevati, mantenendo così ad esempio la produzione per l’alto di gamma in Europa, negli stabilimenti italiani, tedeschi e inglesi (esempio della Pirelli).
    I robot, attraverso sensori e piattaforme di calcolo applicabili, possono apprendere grazie all’esperienza e allo studio autonomo dei comportamenti degli individui senza una complessa programmazione iniziale.
    Il robot, ancora, può migliorare la sicurezza e l’ergonomia del lavoratore, supportandolo nei lavori ripetitivi, gravosi e pericolosi.
    Dico sempre che nell’investire occorre guardare solo il giusto al passato, concentrandosi invece maggiormente sul futuro.
    Ecco, la robotica e il suo step successivo nella cobotica, saranno un sicuro ed importante trend di lungo periodo da cavalcare anche negli investimenti.
  • Concludo augurandoti un sereno fine settimana.
    Un caro saluto.

    Davide