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www.davideberto.it2024-11-21
  • Detengono patrimoni finanziari sopra il mezzo milione di euro, risparmiano poco più dell’8% di quello che guadagnano (era il 24% nel 1995), e si tengono stretti il gruzzolo, più liquido possibile, perché hanno paura del loro futuro e di quello dei loro figli.
    Sono le 500.000 famiglie considerate ricche nel nostro Paese, stando al recente rapporto Censis-Aipb (Associazione Italiana Private Banking).
    Per loro molto è cambiato dalla crisi finanziaria del 2008, a cominciare dalla composizione della loro ricchezza che ormai non cresce quasi più, ed è quasi totalmente ereditata.
    Nel complesso, la ricchezza finanziaria delle famiglie alla fine del 2018 ammontava a 4.218 miliardi di € (-0,4% in termini reali rispetto al 2008).
    I portafogli finanziari crescono poco, per colpa (anche ma non solo) dei tassi negativi.
    Il dato più emblematico è il gonfiarsi della bolla liquidità, ossia denaro tenuto fermo nei conti o nei depositi.
    L’ammontare complessivo è di 1.390 miliardi di €, pari al 33% della ricchezza totale, e in crescita quasi del 14% rispetto a 10 anni fa.
    Ma, in proporzione, il vero boom è dato dalle riserve assicurative.
    Dal 2008 questi strumenti finanziari (spesso molto costosi e poco efficienti) sono cresciuti nei portafogli delle famiglie del 44,6%, e valgono circa un miliardo di € (il 23,7% degli investimenti finanziari totali).
    Fra queste, le riserve assicurative per la vita e per i fondi pensione è quasi raddoppiata.
    D’altra parte, negli ultimi 10 anni si evidenzia un crescente abbandono dei risparmiatori dai titoli di Stato e dalle obbligazioni corporate (debito emesso quindi da aziende), anche bancarie, tradizionale rifugio dei cassettisti.
    I titoli obbligazionari nei portafogli si sono ridotti di quasi un terzo.
    Quasi azzerati invece i Bot e i titoli a breve termine, ormai un ricordo sbiadito.
    Dal 2008 il crollo ha raggiunto il 98,8%.
    Significativa anche la riduzione della quota di azioni e di altre partecipazioni.
    Se buona parte del risparmio resta ferma e non arriva all’economia reale, bisogna anche chiedersi il perché ...

    Buona lettura!
  • 1 - 5 PUNTI DA TENERE A MENTE NEI PERIODI DI FORTE VOLATILITA' (2DI2)

    I mercati finanziari possono inevitabilmente essere soggetti a periodi anche di forte volatilità, durante i quali la fiducia degli investitori può vacillare ed essere messa a dura, durissima prova.
    Oltre a quanto già comunicato nella Newsletter di Venerdì 13 Marzo, occorre considerare anche che:
    > La diversificazione può apparire noiosa ma salva il portafoglio
    Gli investitori possono ripartire il rischio associato a mercati o settori specifici investendo in diverse classi di investimento al fine di ridurre la probabilità di perdite concentrate.
    Detenere un mix di attività “a rischio” (azioni, immobili, crediti), e attività invece più difensive (obbligazioni governative, investment grade e liquidità) nel portafoglio, può aiutare a ottenere buoni rendimenti nel tempo.
    Le soluzioni di investimento multi-asset a gestione attiva possono allora rappresentare un’utile alternativa per alcuni investitori, in quanto offrono una buona diversificazione all’interno del loro portafoglio, con i pesi degli asset gestiti tatticamente secondo le modalità previste.
    La distribuzione degli investimenti in diversi paesi può anche contribuire a ridurre le correlazioni all’interno di un portafoglio, riducendo l’impatto del rischio specifico di mercato.
    > Le azioni di qualità con buoni dividendi sono un asset difensivo
    Dividendi sostenibili pagati da aziende di elevata qualità possono essere particolarmente interessanti, in quanto l’elemento reddito tende a essere stabile anche in periodi di mercato volatili.
    Il pagamento costante dei dividendi tende a sostenere la stabilità dei prezzi delle azioni, e le azioni che pagano buoni dividendi possono aiutare a proteggersi dagli effetti erosivi dell’inflazione.
    Le azioni di alta qualità sono tipicamente rappresentative di marchi globali leader a livello mondiale, in grado di resistere agli alti e bassi del ciclo economico grazie alle loro quote di mercato consolidate, al forte potere di determinazione dei prezzi, e ai flussi di reddito resistenti.
    Queste aziende operano generalmente in più aree geografiche, attenuando gli eventuali effetti di una performance regionale disomogenea.
    La loro capacità di offrire rendimenti attraenti durante tutto il ciclo economico li rende così una componente utile all’interno di molti portafogli.
    > Reinvestire gli utili consente di aumentare i rendimenti totali
    Il reinvestimento dei dividendi può dare un notevole impulso ai rendimenti totali nel tempo, grazie alla forza degli interessi composti.
    Per ottenere un interessante rendimento complessivo, gli investitori devono essere pazienti e disciplinati.
    Il tempo a volte può essere il fattore più critico e, tuttavia, sottovalutato in una formula vincente.
    > L’emotività non deve influenzare le decisioni
    Gli investitori, anche se non è semplice, devono cercare di adottare una visione distaccata dei propri investimenti.
    Trend di lungo periodo, come ad esempio la crescita demografica, l’espansione della domanda della classe media in ambito sanitario, tecnologico, beni e servizi di consumo, rappresentano delle grandi opportunità per gli investitori.
    Il punto chiave è quello di non permettere che l’euforia, o, al contrario, l’indebito pessimismo nel mercato, offuschino il giudizio.
    > L’investimento attivo può essere una strategia di grande successo
    Quando la volatilità aumenta, la flessibilità dell’investimento attivo può essere particolarmente gratificante e può proteggere rispetto alla rigida allocazione degli investimenti passivi.
    In tal senso, occorre ricordare che le azioni non presenti in una soluzione di investimento possono essere importanti quanto quelle presenti.
    Ci sono infatti aziende, in ogni mercato azionario, che sono mal gestite o che soffrono di difficili prospettive.
    I bravi gestori attivi sono allora in grado di evitare i titoli di queste aziende, grazie all’attività di analisi e ricerca su cui possono fare affidamento.
    Evitando le peggiori azioni del mercato, il valore aggiunto viene costruito nel corso dei cicli e con il passare del tempo, rendendo le strategie attive orientate alla ricerca, particolarmente interessanti per gli investitori di lungo termine.
  • 2 - CRONACA DI UNA BANCAROTTA ANNUNCIATA

    Fino a poche settimane fa, il piccolo Libano si reggeva su di un paradosso.
    Lato politico era uno dei Paesi più instabili del Medio Oriente, lato finanziario era invece il più stabile, un modello.
    Tutto merito di un dinamico settore bancario, su cui si reggeva l’intera economia, che da sempre finanziava buona parte dell’ingombrante debito pubblico (già 10 anni fa superava il 120% del Pil).
    Di crisi il Libano ne ha vissute tante, lunghe e drammatiche.
    Eppure ha sempre onorato i suoi debiti.
    Perfino durante il periodo della guerra civile (1976-90), quando 15 anni di scontri fratricidi si lasciarono dietro 200mila vittime e un paese in macerie, quello che restava delle istituzioni aveva provveduto a rimborsare i debiti.
    Stavolta ha dovuto arrendersi.
    Il 9 Marzo passerà alla storia per essere la data del primo default.
    Il giorno in cui non è stato pagato un Eurobond da 1,2 miliardi di $ in scadenza.
    Come possiamo pagare i creditori quando la gente è in strada senza nemmeno i soldi per comprare una pagnotta?” aveva spiegato in precedenza il neo premier Hassan Diab.
    Salito al potere lo scorso 21 Gennaio, era l’uomo cui era stato affidato l’arduo compito di trovare una soluzione alla grave crisi economica.
    Poteva fare ben poco.
    I conti erano drammatici, con un debito pubblico al 170% del Pil, un’inflazione oltre le due cifre, e un deficit che a fine 2018 aveva superato il 10%.
    Sono ore frenetiche quelle di questi giorni nei palazzi del potere di Beirut e nei corridoi delle principali banche, alla ricerca di negoziare una ristrutturazione con i creditori.
    Tutto pur di evitare azioni legali dalle conseguenze potenzialmente disastrose.
    Ma torniamo al recente passato.
    Nel 2010, quando le economie occidentali si leccavano le ferite per la crisi finanziaria mondiale iniziata nel 2008, le banche libanesi macinavano profitti.
    I numeri erano impressionanti.
    L’attività consolidata delle 54 banche aveva raggiunto i 129 miliardi di $ (il 12% in più del 2009 che a sua volta aveva registrato un +22% rispetto al 2008).
    Sempre nel 2010, i depositi privati erano arrivati a 107 miliardi (+12% sul 2009).
    Quanto al Pil, il +9,4% coronava un periodo di forte crescita in cui, nonostante l'instabilità, il sistema bancario libanese attraeva depositi da tutto il mondo.
    In verità i problemi del Paese che importa tutto e vive di soli servizi erano già seri.
    La guerra civile nella vicina Siria ha dato solo il colpo di grazia.
    Un milione e mezzo di profughi si è riversato in Libano, trasformandolo nel Paese con il più alto tasso al mondo di rifugiati per abitante.
    Le infrastrutture, già insufficienti, non hanno retto alla pressione.
    I depositi bancari, vera spina dorsale su cui si reggeva il boom finanziario, avevano iniziato a ridursi.
    Era l’inizio della mancanza di fiducia verso un Paese costruito sulla fiducia.
    I conti pubblici, d’altronde, versavano da tempo in una grave situazione.
    Alla fine i nodi sono arrivati al pettine.
    Complice la corruzione endemica, i servizi di base per i cittadini sono crollati.
    Il caro vita ha creato un esercito di poveri.
    La classe media si è quasi estinta.
    La situazione è molto seria.
    Le banche, che già avevano imposto grossi limiti ai prelievi, hanno cominciato a rifiutarsi di convertire la lira libanese in $.
    Tali misure hanno inferto un duro colpo alla capacità di importare beni.
    Il governo si è così trovato nella situazione di dover decidere se usare le riserve per ripagare il debito, o saltare il pagamento in scadenza e conservarle per le importazioni.
    Le più colpite dal default sarebbero proprio le banche (detengono 12 dei 31 miliardi di Eurobond emessi).
    Ora il governo spera di trovare un accordo anche con i detentori stranieri di titoli non rimborsati.
    Intenderebbe ristrutturare l’intero debito.
    Grossa parte del debito scaduto è controllato dal fondo britannico Ashmore, e non è scontato che sia disponibile ad accettare proposte di ristrutturazione.
    Si aprirebbe così la strada delle azioni legali.
    Pur di evitarle il Libano proverà a invocare l’aiuto dell'FMI, ma il prezzo da pagare rischia di essere molto alto.
    In cambio di un prestito, Beirut dovrà presumibilmente negoziare un pacchetto di dolorose riforme che metterebbero ancor più in difficoltà una popolazione già stremata.
    Come non bastasse la crisi, ora anche il Covid-19 crea ulteriore panico e preoccupazione tra i cittadini che in buona parte già vivono sotto la soglia di povertà.
  • 3 - UNO SGUARDO ALLE CRISI DEL PASSATO

    Nel 2009, anno post fallimento Lehman Brothers, il Pil del mondo si fermò ma non diminuì.
    Il riassunto più efficace l’ha fatto in poche parole Mario Draghi sul Financial Times del 25 Marzo: “abbiamo di fronte una guerra con il Coronavirus e dobbiamo mobilitarci di conseguenza”.
    La sua frase ha una chiara traduzione: governi e banche centrali dovrebbero prepararsi a salvare tutto il possibile nell’economia privata senza lesinare risorse pubbliche, e quindi senza preoccuparsi troppo dell’aumento dei debiti pubblici.
    In tanti episodi catastrofici del passato la mobilitazione della politica è servita a riportare la crescita nell’economia.
    Un esempio, è quello relativo alla ripartenza dell’Europa occidentale alla fine della 2^ guerra mondiale, che produsse prima di tutto tragiche conseguenze umane con decine di milioni di vittime civili e militari.
    Guardando alle perdite economiche, solo nell’Europa occidentale, il calo del Pil al netto dell’inflazione tra il 1939 e il 45 fu del 18%.
    Poi le economie europee rimbalzarono tanto che nel periodo 1945-52 (fine del piano Marshall) il Pil aumentò del 37%, al punto che nel 1952 il Pil dello stesso gruppo di paesi aveva raggiunto un livello superiore del 15% rispetto ai livelli del 39.
    Stesse tendenze qualitative anche per l’Italia: durante la 2^ guerra mondiale il nostro Pil scese del 44%, ma con il rimbalzo del dopoguerra arrivò uno spettacolare +118% nei 7 anni successivi che inaugurarono il periodo del boom economico.
    La storia suggerisce altri episodi di rapide ripartenze negli anni immediatamente successivi al verificarsi di eventi catastrofici, più recenti e relativi ai paesi emergenti.
    Un esempio è quello dell’Iraq sconvolto dalle due guerre del Golfo nel 1990-91 e nel 2003.
    A seguito della 1^ guerra, il Pil iracheno scese del 56% nel 1991, ma poi arrivarono 2 anni di strabiliante recupero: +25% nel 1992 e +49% nel 93.
    Circa 10 anni dopo la guerra azzerò la crescita irachena nel 2002 e ridusse di 1/3 il Pil del paese nel 2003.
    Ma nel 2004 ci fu un rimbalzo del 55% tanto forte da più che compensare i crolli degli anni precedenti.
    Tra i casi di ripartenza dopo una catastrofe, si può ricordare anche Haiti colpita da un terribile terremoto nel 2010.
    In quell’anno il Pil dell’isola scese del 5,5%, ma poi, già nel 2011, le attività economiche recuperarono il terreno perduto grazie al notevole afflusso di aiuti internazionali.
    Tutti i casi elencati hanno allora un elemento in comune: la crisi è stata una “V”, un drammatico crollo indotto dalla catastrofe, seguito da una rapida ripresa.
    Certo, la rapida ripresa avviene solo grazie al dispiegamento di abbondanti risorse, spesso provenienti dall’estero, per finanziarie la ricostruzione.
    Una breve crisi genera un forte incentivo a ripartire se il tessuto culturale sottostante, il vero motore, rimane intatto.
    Ma il desiderio di tornare alla crescita corre il forte rischio di rimanere frustrato se mancano i soldi per ripartire, o se la crisi ha distrutto la fiducia.
    Nell’Europa del secondo dopoguerra arrivarono 14 miliardi di $ di piano Marshall.
    Nell’Iraq delle guerre del golfo, dopo le bombe arrivarono gli aiuti per ripartire.
    Lo stesso avvenne ad Haiti prostrata dal terremoto, dove gli aiuti nel 2010-11, arrivati dalla comunità internazionale, rappresentarono più del 20% del Pil del paese.
    Nel mondo di oggi devastato dal terribile contagio del Coronavirus serve allora la mano visibile della politica.
    La quale, dopo qualche esitazione iniziale, sembra (forse) aver capito la lezione.
    Gli USA, che per scelta hanno un paracadute di stato sociale meno sviluppato che in Europa o in Cina, si sono mossi per primi.
    Il Congresso ha approvato in fretta il piano di 2.000 miliardi di $ proposto da Trump per supportare famiglie e imprese, mentre la banca centrale ha annunciato la disponibilità a offrire liquidità illimitata in modo che il mondo non rimanga a corto di dollari.
    Basta dunque aspettare che le politiche facciano il loro corso?
    Non proprio.
    Tra l’Europa (e l’Italia) e il mondo di oggi, e quelli del 2^ dopoguerra e degli anni più vicini a noi, c’è una grande differenza: oggi già in partenza c’è molto più debito, pubblico e privato.
    Non si può quindi dare per scontato che l’impulso che governi e banche centrali proveranno a imprimere possa produrre gli stessi risultati di robusto rilancio della crescita visti in passato.
    Ma come ha ricordato l’ex presidente della Bce, esitare a mobilitare tutte le risorse disponibili sarebbe un errore con conseguenze incalcolabili e irreversibili.
  • 4 - IL DEBITO VERSO L'INSOSTENIBILITA'

    La parola debito, già di suo, non evoca scenari felici.
    Ancor peggio se quel debito fosse del tutto insostenibile.
    Questo è però lo scenario post Coronavirus nei bilanci dei governi mondiali.
    In questa pandemia, che Mario Draghi ha definito una “tragedia dalle bibliche proporzioni”, i debiti sono destinati a esplodere, in particolare quello pubblico avviato a diventare la caratteristica permanente delle nostre economie.
    Il governo americano ha stanziato 2mila miliardi di $ (quasi il 10% del Pil) per tamponare la situazione.
    Quello italiano potrebbe impegnare 50 miliardi (il 3% del Pil), mentre Germania e Francia hanno promesso ancor maggiori risorse.
    Secondo la casa di gestione svizzera del risparmio Pictet, il bazooka fiscale potrebbe essere pari al 2,5% del Pil mondiale, con un effetto moltiplicatore sull’economia di 1,5-2.
    Quasi il doppio di quanto fatto nel 2008-2009 (1,6% del Pil mondiale di allora).
    Questi numeri tengono conto di quanto proposto nelle ultime settimane, e sono destinati a lievitare enormemente, cosicché il rapporto tra debito pubblico e Pil si avvia a salire ben più di quanto avvenne dopo il 2008, per effetto combinato di maggiori spese e di un Pil in caduta del 5-10%.
    Guardando in casa nostra, al 31 Gennaio 2020 il debito pubblico italiano, da comunicazioni di Banca d’Italia, era di 2.443 miliardi di €, rispetto ai circa 2.409 del mese precedente (+1,4% in un mese).
    Per valutarne l’entità, il debito viene solitamente rapportato al Pil di una nazione.
    Il rapporto tra debito pubblico e Pil italiano si attesta circa al 137%.
    Secondo i criteri di Maastricht, uno Stato dovrebbe avere un rapporto debito/Pil inferiore al 60%, o quanto meno dare segnali di riduzione.
    Un debito eccessivo potrebbe ovviamente portare un Paese a non rispettare i propri impegni, andando così in default.
    Cosa potrebbe allora succedere se il Pil continua a scendere, come purtroppo avverrà, e il debito ad aumentare?
    Siamo seduti su una montagna di debito che, a mio avviso, non sarà più sostenibile.
    Se guardiamo invece oltre oceano, il debito pubblico americano è esploso dagli anni 80 ad oggi, continuando la sua traiettoria verso le stelle a seguito dell’attacco alle torri gemelle, della crisi del 2008, e ora con la crisi del Coronavirus.
    Trump prometteva di eliminare il deficit, ma potrebbe assistere al contrario al più grande deficit di sempre in un colpo solo.
    Se si considera che il debito americano, con i criteri europei, è già al 107% del Pil, il rapporto si stima crescerà oltre il 140% nel 2021.
    Quello italiano potrebbe finire ben oltre il 160%.
    In Inghilterra, ancora, tra il 2007 e il 2013, il debito era salito di ben 47 punti percentuali.
    Potrebbe venire proiettato nel 2021 al 98% del Pil, 13 punti in più rispetto allo scorso anno, ma la previsione sembra ottimistica.
    Ricordiamo che i vari Stati devono pagare gli interessi sul debito, e mentre i tassi sono a zero in gran parte d’Europa, l’Italia paga un tasso dell’1,5% per i suoi Btp decennali.
    Qualche economista grida ultimamente alla cancellazione del debito.
    La ritengo personalmente una cosa da pazzi.
    I debiti vanno rimborsati, altrimenti la cancellazione si configurerebbe a tutti gli effetti come una forma di default.
    Chi, con un po’ di sale in zucca, darebbe fiducia a uno Stato i cui debiti sono stati tagliati?
    Quello del debito sarà allora il grande problema che si presenterà dopo l’emergenza sanitaria.
    Che cosa deve fare un investitore considerato allora questo rischio?
    Sicuramente diversificare e affidarsi a una gestione professionale del risparmio, sono le cose migliori per evitare rischi stupidi e inutili.
    Per il resto, abbiamo visto come la storia dell’umanità sia fatta di enormi sali e scendi, di periodi bui da cui nasce però la voglia di progredire, di andare avanti e migliorare.
    Credo che anche questa volta andrà così.
  • 5 - GLI ASSET ILLIQUIDI PER DIVERSIFICARE E RILANCIARE I PORTAFOGLI

    Diversificazione e forte selettività.
    Dando spazio all’interno del portafoglio agli strumenti alternativi di investimento, anche a quelli illiquidi (con una durata prefissata e non liquidabili prima della scadenza).
    E’ questa la ricetta di molti addetti al settore.
    Investendo infatti nei mercati privati, e quindi in strumenti come venture capital, private equity, debito privato, infrastrutture e trasporti, è possibile aggiungere valore al proprio portafoglio di investimento.
    I rendimenti medi annualizzati negli ultimi due lustri possono oscillare, a seconda dell’asset class, tra il 5 e il 10%.
    Un boost che diventa molto importante in un contesto in cui le obbligazioni hanno rendimenti a zero, se non addirittura negativi, e i mercati azionari mai prima si sono dimostrati così vulnerabili per il mix Covid-19 + petrolio.
    Non è un caso che il mercato degli alternativi abbia registrato una crescita notevole negli ultimi anni, in particolare il mondo degli illiquidi che ha visto crescere gli investimenti dai 7 trilioni di dollari del 2012 ai 17 trilioni odierni.
    Ma attenzione, gli asset privati, come detto, sono prodotti non liquidabili prima della scadenza, e vanno pertanto approcciati con prudenza, in quanto devono rappresentare una contenuta percentuale dei propri investimenti.
    C’è bisogno, come sempre, di una pianificazione accurata e, per questi strumenti, di un orizzonte temporale di lungo periodo.
    Immobilizzando una parte di portafoglio, non bisogna certo avere esigenze di liquidità a stretto giro.
    Anche in Azimut siamo attivi e assolutamente operativi da alcuni anni nel settore dei Private Markets.
    Sono asset class di investimento che, anche emotivamente in questo complicato periodo, possono aiutare gli investitori nella loro strategia di pianificazione e progetto finanziario, e nella generazione di buoni rendimenti nel tempo.
  • 6 - +195% IN UN SOLO GIORNO "GRAZIE" AL CORONAVIRUS

    Il Coronavirus, unitamente in parte al crollo del prezzo del petrolio, ha fatto crollare le Borse nelle scorse settimane.
    E’ però la stessa pandemia a spingere in forte guadagno alcuni titoli azionari.
    E’ il caso di AIM ImmunoTech Inc. che, nelle ultime sedute, è entrata letteralmente in orbita per poi ridimensionare almeno in parte le sue performance.
    La società biofarmaceutica statunitense, con sede ad Ocala in Florida, in un solo giorno, Lunedì 9 Marzo, ha guadagnato oltre il 195% in Borsa in seguito alla notizia che sarà attivato un test, da parte dell’Istituto nazionale di malattie infettive giapponese, su di Ampligen, un farmaco aziendale.
    Un prodotto che potenzialmente costituisce, secondo il comunicato dell’azienda quotata al New York Stock Exchange, un trattamento contro il Covid-19, il virus che sta sconvolgendo il mondo.
    Ovviamente ad oggi non è possibile dare un giudizio di merito sulla questione: in primis perché si tratta di un argomento specialistico per addetti ai lavori, e poi perché bisognerà attendere i risultati della valutazione.
    Il balzo delle azioni di AIM ImmunoTech segnala la fortissima sensibilità che c’è in questo periodo nei mercati, non solo finanziari, sull’argomento.
    Solo il tempo potrà dire se si è trattato di una scommessa troppo frettolosa andata poi male, oppure di un lungimirante investimento vincente da parte di qualcuno.
    Il titolo azionario dell'azienda sta guadagnando da inizio anno oltre il 400%, contro un mercato azionario americano in rosso circa del 25%.
    Il mio consiglio?
    Meglio evitare le scommesse di importo elevato sui singoli titoli.
    Ancor più se sconosciuti.
    Ogni volta che si investe in un singolo titolo occorre pensare di poter fare a meno di quei soldi, o di una parte degli stessi, se la scommessa dovesse poi rivelarsi sbagliata.
    Riservare allora alle scommesse finanziarie solo una contenuta parte del proprio patrimonio.
    Di singoli titoli, di singole aziende io ne parlo e mi piace parlarne, ma ... attention please!
  • 7 - ANCHE I MIGLIORI POSSONO SBAGLIARE

    Era il guru degli investimenti.
    Il più grande fondo di venture capital aziendale nella storia.
    Quando ”scommetteva” su di un business innovativo, tutti si aspettavano diventasse un’impresa di grande successo.
    Ciò che “toccava” si trasformava in oro.
    Il gruppo giapponese di servizi non solo finanziari Softbank, con il suo Vision Fund, aveva investito alla fine di Giugno 2019 più di 71 miliardi di dollari (71 miliardi di dollari …) in 83 aziende, registrando 20,2 miliardi in ritorno d’investimento e distribuendone 6,4 ai suoi investitori.
    Quando Softbank investiva, la valutazione delle imprese tendeva a moltiplicarsi.
    Ma l’anno scorso anche il gigante del venture investment (investimenti in imprese non quotate in Borsa) ha preso una cantonata.
    Fino al 2018 aveva acquistato capitali di WeWork, la più grande azienda al mondo di spazi di lavoro condiviso, per 4,5 miliardi di $.
    Il colosso del coworking, forse ne hai sentito parlare, ha avuto un’ascesa meteorica in 9 anni per una valutazione a inizio 2019 di 47 miliardi.
    Visti i risultati negativi del suo business, la resa dei conti è stata però rapida e inevitabile.
    Lo scorso 23 Settembre WeWork, che doveva quotarsi in Borsa, ha dovuto ritirare la sua Ipo: la valutazione aziendale è stata infatti bocciata dai potenziali investitori, spingendola in una forchetta compresa tra i 10 e i 15 miliardi (ben lontana dai 47 precedenti …).
    Softbank ha deciso così di aumentare la presenza nel capitale dell’azienda per rialzarne la quotazione dopo il crollo verticale, con successive iniezioni di liquidità.
    A risentirne è stato inevitabilmente anche il valore del portafoglio di Softbank: a fine 2019 il colosso nipponico ha registrato un tonfo da 8,9 miliardi di $.
    La sua vision, da tutti elogiata, ha fallito almeno per una volta.
    Oltre a questo brutto colpo, a zavorrare la realtà guidata da Masayoshi Son è stata un’altra “gemma” della sua cassaforte, Uber, in cui ha investito ben 10 miliardi.
    Il calo delle valutazioni di Uber e WeWork, ha portato il Vision Fund a una perdita operativa di 6,5 miliardi tra Luglio e Settembre 2019, contro un +6,6 dello stesso periodo 2018.
    Un bagno di sangue anche reputazionale, perché numeri simili hanno messo in discussione la sua strategia di investimento, e forse anche la possibilità che il Vision Fund, una volta raggiunti i primi 100 miliardi, possa veder nascere un secondo veicolo di investimento.
    Sembra però che Softbank non intenda discostarsi dalla sua strategia.
    A fine 2019 ha investito infatti 5,3 miliardi nel capitale di Didi Chuxing, il corrispettivo cinese di Uber che vanta una valutazione di 56 miliardi, 3,5 miliardi in Grab Holdings, azienda singaporiana che offre servizi di trasporto e logistica attraverso applicazioni per dispositivi mobili nei paesi del sud-est asiatico, e altri 3 in ByteDance Ltd, azienda cinese di contenuti online.
    Son non finiva mai di stupire, ma sembra aver perso il suo tocco magico, tanto che gli investitori si sono messi recentemente a discutere sulla stabilità del suo impero ...
  • Concludo questa 7 Notizie in 7 Minuti invitandoti a ricordare sempre questa frase di John Templeton, fondatore di Franklin Templeton Investments:
    "I mercati nascono nel pessimismo, crescono nello scetticismo, maturano nell'ottimismo, muoiono nell'euforia".

    Auguro a te e alla tua famiglia una serena Pasqua di Resurrezione.
    Un caro saluto,

    Davide