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www.davideberto.it2024-10-11
  • Questa settimana abbiamo conosciuto, anche sui mercati, il panico da Coronavirus.
    Piccoli e grandi risparmiatori, investitori istituzionali e gestori, hanno interrotto un piacevole sogno che durava da più di un anno.
    Da mesi tutto saliva sui mercati.
    Investire sembrava diventato un gioco da ragazzi, e, nonostante alcuni titoli azionari avessero raggiunto valutazioni stellari rispetto ai fondamentali, nessuno pensava che l'idillio potesse presto finire.
    E' bastato l'arrivo del virus Covid-19 dalla Cina a Codogno, un paese del lodigiano di meno di 16mila anime oggi tutte in quarantena, per trasformare in incubo il sogno di milioni di investitori in tutto il Mondo.
    Ad amplificare l'ondata dei ribassi sono state anche le vendite automatiche, visto che ormai più dei 2/3 dei volumi sui mercati azionari sono mossi da algoritmi che replicano freddamente gli indici.
    I gestori passivi non cambiano strategia a seconda del momento di mercato.
    Devono comprare o vendere secondo quella che è la regola di costruzione dell'indice sottostante.
    Lunedì 24 Febbraio, ad esempio, l'Etf che replica l'indice americano S&P500 ha segnato una variazione del -3,43%, allineandosi alla perdita della Borsa americana.
    L'Etf che, anziché copiare l'indice, equipesa tutti i titoli dell'indice stesso, è sceso leggermente meno (-3,14%).
    Nella stessa seduta di Borsa ci sono stati invece dei portafogli gestiti attivamente, concentrati su titoli azionari con elevato valore intrinseco e flussi di cassa, che hanno segnato una perdita appena dello 0,51%.
    In queste ore dunque è il momento per la gestione attiva di dimostrare il suo valore rispetto ai replicanti di indici.
    Sarà questa anche una sfida importante per tutti i Consulenti Finanziari.
    Gli investitori che, fino ad oggi, hanno fatto da soli, sono più esposti a rischi soprattutto in situazioni come questa.
    La paura tende a prevaricare gli obiettivi.
    Tutte le persone hanno dei bias, giudizi e pregiudizi, comportamentali.
    Pensiamo, ad esempio, all'avversione alla perdita.
    Secondo le teorie sull'utilità, una perdita può essere percepita da un soggetto come un movimento assoluto nell'utilità di circa il doppio rispetto al guadagno.
    Questa tendenza, secondo Consob, interessa il 76% degli investitori.
    Di segno opposto l'eccesso di sicurezza, mentre oltre il 40% mostra una mancata corrispondenza tra conoscenze percepite ed effettive.
    La finanza comportamentale ci dice che possiamo imparare a essere razionali, ma non lo siamo naturalmente.
    Serve dunque una controparte competente con cui ragionare.
    In queste ore è allora sacrosanto chiedersi se è un buon momento per disinvestire, o per investire, o anche per cambiare il profilo di rischio del proprio portafoglio.
    Ogni caso va ovviamente valutato a sé.
    Le statistiche ricordano comunque che si tratta di consigli non recepiti da oltre il 40% dei risparmiatori...
    Una percentuale che aumenta molto in momenti di panico.
    Ma con il Covid-19, anche sui mercati, è meglio non essere lasciati soli a provarsi la febbre con il termometro da casa.

    (Plus24 - Il sole 24 Ore di Sabato 29.02.2020) 
        
    Buona lettura!
  • 1 - LA CRESCITA PIU' LENTA DAL 1990

    Nella 7 Notizie in 7 Minuti di un mese fa (era Lunedì 03/02) ho voluto comunicare i grossi problemi demografici del colosso cinese.
    In questo numero tratterò invece del rallentamento economico della Cina stessa che, causa una domanda interna indebolita e le tensioni commerciali con gli Stati Uniti, nel 2019 ha rallentato come mai prima negli ultimi 30 anni.
    La seconda economia mondiale è cresciuta infatti del 6,1% l’anno scorso (dati ufficiali del governo), la peggiore performance dal 1990.
    E quest'anno dovrà anche fare i conti con il Coronavirus...
    Per noi italiani ed europei si tratta ovviamente di una crescita da capogiro.
    Il dato (nel 2018 il Pil era cresciuto del 6,6%) corrisponde alle attese degli analisti e rientra nell’obiettivo ufficiale di Pechino tra il 6 e il 6,5%, conseguito da un’economia considerata sempre più matura, come evidenziato anche dall’annuncio che per la prima volta il reddito nazionale pro capite ha superato i 10.000 dollari.
    Il paese ha quindi dimostrato anche una capacità di resistenza e reazione nell’anno in cui Trump ha dispiegato con più forza la sua guerra commerciale, sfociata in una tregua solamente a metà Gennaio.
    Il Paese è riuscito a crescere a un ritmo all’incirca doppio rispetto alla media mondiale, segnando inoltre la ripresa di alcuni indicatori a Dicembre.
    Per il 2020 il virus impatterà probabilmente non poco.
    Non mancano inoltre punti interrogativi sul settore immobiliare, manifatturiero e bancario.
    Per le autorità di Pechino, le sfide più insidiose si profilano piuttosto a medio e lungo termine, in relazione alla maturazione dell’economia e della società che sta cambiando gli equilibri demografici, come abbiamo visto assieme alcune settimane fa, con un impatto anche sul mercato del lavoro.
    La Cina nel 2019 ha registrato il minor numero di nascite in 58 anni, ossia dai tempi della grande carestia degli inizi anni 60 che provocò decine di milioni di vittime: 14,65 milioni con un calo (il terzo consecutivo) di 580mila unità sul 2018.
    Peraltro la popolazione totale risulta leggermente in crescita, in quanto i cinesi vivono più a lungo e le nascite hanno superato i decessi.
    Gli anziani (65 anni e oltre) sono aumentati in un anno dello 0,7%, raggiungendo il 12,6% del totale, mentre la popolazione in età da lavoro è scesa di quasi 900mila unità per l’ottavo anno di contrazione consecutivo.
    Anche se a fine 2015 è stata abolita la politica del figlio unico, introdotta nel 1979 per favorire lo sviluppo economico, il declino della natalità e l’invecchiamento della popolazione stanno dunque accelerando, secondo un trend che pare inarrestabile.
    Il che rafforzerà inevitabilmente le pressioni negative sull’economia e sulle pubbliche finanze.
  • 2 - NON E' TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA

    Un’economia che continua a tirare, la Borsa (fino a 10 giorni fa) alle stelle, la disoccupazione ai minimi, il Pil in crescita continua e ora anche una timida ripresa dei salari.
    Ma l’America è davvero così in forma?
    Wall Street, dall’insediamento di Trump a oggi, cresciuta più del 40%, rappresenta certamente un importante indicatore di salute economica (anche se l’incremento è inferiore a quelli registrati nei primi tre anni delle presidenze Obama e Clinton).
    Ma è anche un fattore di ulteriore allargamento del gap tra ricchi e poveri, visto che nell’era Trump i salari sono saliti ma solo del 9%, mentre l’87% dei titoli quotati sono posseduti solamente dal 10% più ricco della popolazione.
    La Fed (banca centrale americana), comprando titoli pubblici e privati, ha aiutato poi soprattutto chi possiede quei titoli, non certo la popolazione più povera.
    L’America è un paese caratterizzato da forti divari economici al suo interno.
    Ci sono poi almeno due importanti fattori che spingono a guardare con scetticismo la descrizione enfatica di un’America arrivata quasi al pieno impiego, e di una ripresa dei salari che comincerebbe a risollevare le sorti di un ex ceto medio negli ultimi anni proletarizzato.
    Il primo riguarda il modo con il quale negli USA vengono raccolti i dati statistici sull’occupazione: le rilevazioni che danno la disoccupazione al 3,5% non tengono conto dell’altro 6,9% (11 milioni di americani) uscito negli ultimi anni dal mercato del lavoro, soprattutto perché incapace di riciclarsi nel mondo attuale delle tecnologie digitali.
    Risulta infatti disoccupato solo chi dimostra di aver cercato attivamente lavoro negli ultimi 6 mesi.
    Sono poi considerati occupati a pieno titolo anche i lavoratori part-time, gli stagionali e chi ha un contratto di breve durata.
    Spesso persone con posti di lavoro a bassa retribuzione.
    Spariscono inoltre dalle statistiche del lavoro intere categorie “problematiche”, come gli ex detenuti e chi ha conti in sospeso con la giustizia.
    Altri milioni di americani.
    L’altra questione riguarda i criteri di calcolo del benessere delle famiglie: la ripresa dei salari è benvenuta, ma parlare di gente impoverita che torna a essere ceto medio è fuorviante perché, mentre le retribuzioni nel triennio Trump sono cresciute come detto complessivamente del 9%, il costo della vita è aumentato molto di più soprattutto per le impennate continue dei costi della sanità, dell’istruzione e dei trasporti.
    In varie regioni sono molto cresciute anche le spese per la casa e per l’alimentazione.
    Fa eccezione il junk food (cibo spazzatura), causa principale dell’epidemia di obesità e diabete (un terzo della popolazione, 110 milioni di cittadini, diabetica o prediabetica) che attanaglia l’America.
    Trump aveva poi promesso che il debito pubblico non sarebbe salito perché la sua riforma avrebbe provocato un boom economico (Pil a +4%), con conseguente forte aumento delle entrate fiscali, mentre i dazi avrebbero rilanciato l’industria.
    In realtà il Pil sta sì crescendo, ma meno del previsto (per il 2020 si prevede un +2% anche se la Casa Bianca continua a parlare del 3%), e sale grazie ai consumi a dispetto invece degli investimenti aziendali scesi  drasticamente negli ultimi anni.
    L’industria poi ha perso colpi nel secondo semestre 2019: i dazi contro la Cina hanno infatti aiutato più gli esportatori europei che le imprese americane.
    Così ora Trump mette nel mirino proprio l’export UE.
  • 3 - LA GERMANIA FERMA INCIDE SULL'EUROZONA (CHE CRESCE AI MINIMI DA 7 ANNI)

    Mentre il Dax (l’indice delle 30 principali aziende tedesche quotate in Borsa a Francoforte) faceva, fino a pochi giorni fa, segnare nuovi record, il Pil tedesco si ferma allo 0% nell’ultimo trimestre del 2019, come reso noto dall’ufficio di statistica Destatis.
    Nel quarto trimestre 2019 il Pil nell’area dell’euro e nella UE è cresciuto dello 0,1% rispetto al trimestre precedente, quando era salito dello 0,3%.
    Italia e Finlandia sono risultati gli unici Paesi dei 19 con segno negativo, rispettivamente -0,3 e -0,4%.
    Per l’intero 2019 il Pil tedesco ha fatto segnare un magro +0,6%, il livello più basso dallo 0,4% della crisi 2012-2013, dato sul quale hanno pesato diversi fattori come i rischi geopolitici (guerra dei dazi USA-Cina e Brexit), ma anche problemi strutturali dell’industria manifatturiera come il cambiamento epocale del settore automotive.
    Anche a causa quindi della debolezza della Germania, è risultata la crescita 2019 della zona euro ed Europa: sulla stima dei quattro trimestri, il Pil nell’area euro è aumentato dell’1,2% e nella UE dell’1,4%.
    Il livello più basso per l’Eurozona dopo il -0,2% del 2013.
    Il volume del Pil tedesco 2019, nonostante la crescita in rallentamento, ha comunque raddoppiato il Pil italiano (3.435 miliardi contro i 1.721 stimati del nostro Paese).
    Sempre nel 2019, il debito/Pil tedesco dovrebbe essere sceso sotto il 60%, forse al 58%, contro quello italiano proiettato verso quota 135%.
    L’economia tedesca nel quarto trimestre 2019 è stata sostenuta da 45,5 milioni di lavoratori a tempo pieno, con un tasso di disoccupazione del 5% e di occupazione al 75,9%.
    Questo è il perno principale su cui fa leva la domanda interna che tiene, mentre l’export mostra alti e bassi.
    In Italia il tasso di occupazione lo scorso Dicembre è risultato del 59,2% con la disoccupazione al 9,8%.
    La stagnazione tedesca trova cause in esportazioni più deboli, calo di domanda interna e di investimenti pubblici, controbilanciati dal continuo boom di edilizia e costruzioni.
    La Germania insomma stenta a prendere slancio e allontanarsi con le dovute distanze dal rischio recessione: la debolezza in chiusura 2019, sommata alle forti incertezze del Coronavirus di questo avvio d’anno, getta ombre sul 2020.
    Il dato sul Pil tedesco, che si aggiunge a quello molto brutto della produzione industriale in Germania a Dicembre (-3,5% mese su mese, e -6,8% sull’anno precedente) e alla recente instabilità provocata dal virus cinese, ha riacceso il dibattito tra gli economisti tedeschi sull’opportunità di una politica fiscale ancora più espansiva, a sostegno della crescita troppo debole ed esposta sull’export ai venti geopolitici contrari.
  • 4 - FRUSTRAZIONE PER LA DISEGUAGLIANZA ALLA BASE DELLA CRISI SOCIALE DI HONG KONG

    Quando Hong Kong era una colonia britannica, le chiamavano cage homes (case pollaio), luoghi minuscoli e squallidi popolati dai miserabili.
    Sono comparse negli anni 50 per accogliere l’ondata dei lavoratori arrivati dalla Cina.
    Si “ristrutturavano” vecchie abitazioni, suddividendole in piccolissimi cubi chiusi da reti come quelle dei pollai.
    Alloggi fatiscenti di 37 metri quadri convertiti in una decina di celle con letti a castello.
    C’era spazio solo per le brande, tanto gli operai stavano fuori in cantiere o in fabbrica quasi tutto il tempo.
    Umanità in gabbia.
    Oggi la city finanziaria vanta la più alta concentrazione di miliardari al mondo (67 secondo Forbes), ma il 20% dei 7,4 milioni di abitanti vive in povertà.
    Il salario mensile medio è pari al controvalore di 2.200 euro, ma l’affitto di una stanza arriva a 1.900 euro.
    Servirebbero 20 anni di stipendio a una famiglia per comprare un piccolo appartamento lontano dal centro.
    Negli ultimi anni le reti da pollaio sono quasi scomparse e sostituite da pareti di legno, scatole.
    Il nuovo nome degli alloggi è “casa bara”.
    Sono 210 mila gli hongkonghesi che vivono così, tra vestiti appesi ad asciugare, latrina attaccata al fornello a gas, provviste di cibo, tv e ventilatore per alleviare il caldo.
    Le foto fanno veramente impressione.
    C’è la paura dell’asservimento politico al sistema autoritario della Cina dietro la protesta di Hong Kong.
    Ma c’è anche la frustrazione per la diseguaglianza e la schiavitù economica ad alimentare la crisi sociale che da nove mesi sconvolge il territorio.
  • 5 - LA PAZZESCA MULTA AD AIRBUS

    Airbus pagherà complessivamente 3,592 miliardi di euro, una volta che sarà raggiunto un accordo definitivo di patteggiamento, per chiudere cause per corruzione aperte in Francia, Regno Unito e Stati Uniti.
    Più di 3 miliardi e mezzo di euro!
    Lo hanno fatto sapere nelle scorse settimane le autorità francesi, spiegando che il maggiore produttore di aerei al mondo ha già raggiunto un’intesa da 2,08 miliardi di euro con i procuratori francesi per archiviare le accuse.
    La parte restante, circa 1,5 miliardi di euro, sarà versata alle autorità britanniche (984 milioni) e statunitensi (526 milioni).
    Airbus è sotto indagine per sospetti casi di corruzione nell’ambito delle vendite di aerei nell’arco di un decennio.
    Avrebbe infatti effettuato pagamenti illeciti a intermediari per aggiudicarsi contratti a livello globale.
    Deve inoltre fare i conti con indagini degli Stati Uniti per presunte violazioni dei controlli sulle esportazioni.
    Ma l’intesa raggiunta non è tutto.
    Il colosso aeronautico dovrà inoltre versare circa 60 milioni di euro, in particolare, per “false dichiarazioni” nel quadro di contratti volti all’esportazione di armi con componenti USA.
    Il dipartimento di giustizia statunitense ha affermato che si tratta della più importante risoluzione di una vicenda di corruzione a livello mondiale.
    La mega multa (sul piano legale non equivale comunque a un’ammissione di colpa) peserà su buona parte dei ricavi del gruppo.
    Nel 2018 Airbus ha fatto segnare un utile netto di 3,1 miliardi.
    I conti 2019, proprio causa maximulta, sono invece in rosso nonostante profitti operativi in crescita.
    Dal 2016 il caso pendeva come una spada di Damocle sull’azienda che conta oggi 134.000 dipendenti.
    Airbus, tra l’altro, rischiava di non poter partecipare a nuove gare pubbliche d’appalto.
    L’accordo permette allora all’azienda di lasciarsi alle spalle le nubi del passato, sperando in una nuova positiva ripartenza.
    Vede molto più nero la concorrente americana Boeing, messa in ginocchio dalla grave crisi legata al 737 MAX (a Marzo dell’anno scorso due incidenti ravvicinati all’aereo provocarono la morte di 346 persone).
    Una crisi che ha colpito il prodotto più venduto di sempre dall’azienda, e che le è già costata ricavi caduti del 24% (-37% nell’ultimo trimestre), perdite straordinarie per oltre 18 miliardi di dollari con molti ordini cancellati, costi aggiuntivi, risarcimenti che si stimano nell’ordine di altri 10-15 miliardi, e una produzione messa in stand-by dal colosso americano.
    A Gennaio Boeing ha prodotto solamente 13 aerei (46 un anno fa), contro i 31 di Airbus.
    Non ha inoltre nuovi ordini, contro i 274 del consorzio europeo.
    La prospettiva è un ulteriore calo della produzione, e le vendite, come ammesso dall’azienda, impiegheranno almeno due anni per tornare ai livelli del 2018.
    Spetterà al nuovo CEO David Calhoun resuscitare l’azienda dal grave momento di difficoltà.
    In tutto questo, nell’ultimo anno ha ovviamente sofferto, e non poco, il titolo azionario Boeing quotato in Borsa a New York (NYSE).
    Prosegue invece al momento incontrastata la crescita del concorrente titolo azionario Airbus a Parigi.
  • 6 - IL FUTURO DEGLI INVESTIMENTI? GUARDA A CAMBIAMENTO CLIMATICO E SOSTENIBILITA'

    “Siamo sull’orlo di una completa trasformazione.
    Il climate change obbliga gli investitori a riconsiderare le fondamenta della finanza moderna”. 
    Queste le parole usate di recente da Larry Fink (co-fondatore, CEO e presidente di BlackRock, la più grande società di gestione del risparmio al mondo con quasi 7mila miliardi di dollari in gestione) nella sua consueta lettera agli investitori, nel dettare la linea sul futuro degli investimenti nei prossimi anni.
    Non era di certo necessaria la lettera di Fink per constatare che i temi del cambiamento climatico e della sostenibilità fossero già ampiamente entrati a far parte delle strategie di investimento di tutta l’industria della finanza e del risparmio gestito.
    Oggi ci sono più di 75.000 miliardi di dollari investiti in asset a livello globale, e già il 43% di questa montagna di soldi è allocato su investimenti etichettati come sostenibili e responsabili.
    Secondo i calcoli di Pictet arriveremo entro 5 anni all’80%.
    La strada è pertanto spianata ma (giustamente) molti investitori si chiedono quanto i fondi siano in grado di incidere sulle politiche ESG delle aziende che hanno in portafoglio.
    O dietro ai termini clima e sostenibilità ci sono piuttosto solamente politiche di marketing?
    Il vero attuale problema è nell’autorevolezza degli indicatori ESG non ancora adeguatamente rigorosi e definitivi.
    Non è facile infatti catalogare in maniera precisa ciò che realmente è sostenibile e ciò che invece non lo è.
    Ci sono standard e metri di valutazione a maglie troppo larghe.
    Un rating ESG fornisce infatti oggi una valutazione ancora sintetica, non una garanzia.
    Certo, l’impact investing, ossia l’investimento basato sull’idea che i capitali privati possano contribuire a creare positivi impatti sociali e ambientali, ed economici allo stesso tempo, offre opportunità interessanti ai risparmiatori.
    Quello che i fondi possono (e devono) fare concretamente, sono le battaglie in assemblea con un atteggiamento attivo rispetto alle politiche di gestione delle aziende in cui investono.
    Prima occorre però operare con un principio di esclusione che sancisca il fatto di non investire in aziende non virtuose, che non rispettano determinati principi in tema ambientale e sociale.
    Secondo i dati Morningstar, nel frattempo, le risoluzioni su temi ambientali, sociali e di governance stanno ottenendo sempre più supporto da parte degli investitori.
    Lo scorso anno negli Stati Uniti questi temi hanno interessato 1/3 delle assemblee delle aziende quotate a Wall Street, il livello più alto da 16 anni.
    L’attenzione quindi c’è, in modo importante e crescente.
    I fondi di investimento devono essere delle vere sentinelle in merito a queste tematiche, facendo la loro parte in modo attivo.
    Guardare solamente al rating, come abbiamo visto con il crack Lehman Brothers, non può più bastare.
  • 7 - LA RIVOLUZIONE DEI BRAND NEGLI ULTIMI 20 ANNI

    Dove vent’anni fa regnava Coca-Cola, oggi domina Apple.
    Dalle bollicine zuccherate più bevute al mondo, alla mela morsicata che con i suoi prodotti fa proseliti e macina record su record in Borsa.
    Eccoli allora i due brand globali più ricchi osservati a vent’anni di distanza.
    Un’istantanea che è insieme il racconto di come sono cambiati negli anni i consumi e le strade del business, nel secolo dominato dalla tecnologia e dalla rivoluzione del rapporto marca-cliente sempre più personalizzato e votato all’esperienza.
    Nel 2000 la classifica Best Global Brands stilata dalla società di consulenza Interbrand vedeva sul podio, dopo Coca-Cola, Microsoft e IBM come aziende dal più alto valore del proprio marchio.
    Seguivano Intel, Nokia, General Electric, Ford, Disney, McDonald’s e AT&T.
    Vent’anni e venti classifiche dopo, leader indiscusso è appunto Apple, seguita nel podio da Google ed Amazon.
    Seguono Microsoft (in grado di rimanere comunque al vertice vent’anni dopo), Coca-Cola (dal primo al quinto posto), Samsung, Toyota, Mercedes-Benz, McDonald’s (sempre al nono posto ma con un cresciuto valore del marchio) e Disney.
    E’ abbastanza evidente come la maggior parte dei brand oggi ai vertici della classifica non sia più ascrivibile ad uno specifico settore, ma siano ormai delle realtà in grado di navigare in settori sempre più differenziati, dove propongono esperienze diverse anche se caratterizzate da identici principi.
    Apple così spazia dall’hardware ai sistemi di pagamento con Apple Pay, passando anche dall’intrattenimento (Apple TV).
    Denominatore comune è l’offerta di un’esperienza coerente, con un’unica filosofia.
    Microsoft e Coca-Cola, come visto, sono state in grado di rimanere nella top ten a distanza di vent’anni.
    Due aziende cambiate, e molto, dall’inizio del secolo.
    Coca-Cola ha recentemente inglobato aziende di tè biologico e punta anche sull’acqua (ha acquistato a Settembre 2019 l’italiana Lurisia, azienda di acque minerali e bibite).
    Microsoft è stata invece in grado di recuperare e superare la concorrenza puntando sul cloud aziendale, dopo essere entrata anche nel mondo dei social con l’acquisizione di LinkedIn a Giugno 2016.
    Il tutto grazie alla visione del suo CEO di origini indiane Satya Nadella.
    Per alcune aziende che sono state in grado di confermarsi, Nokia invece non ha saputo affrontare la rivoluzione degli smartphone.
    Vedere il grafico del titolo azionario dell’azienda finlandese dal 2000 ad oggi fa veramente impressione e tristezza.
    Samsung, al contrario, da produttore di chip si sta sempre più affermando come diretta concorrente di Apple.
    E i bilanci?
    Dai 988 miliardi di dollari di valore all’inizio del secolo, nel 2019 le top cento hanno sfondato quota 2 mila miliardi, con un tasso di crescita composto annuo del 4,4%.
    Ben più del Pil globale.
    Oggi vengono premiate le organizzazioni che restano costantemente in contatto con la clientela, non solo analizzandone i dati, ma intuendone il significato profondo e anticipando i grandi mutamenti di scenario.
    Quando una strategia di branding funziona, ha come risultato un temporaneo monopolio, riconoscibilità e buoni risultati di business.
    Da sempre i marchi più rilevanti sono storie in evoluzione.
    Anche per questo non ha più molto senso, se vogliamo, parlare di posizionamento.
    Meglio dire “traiettorie”.
    Amazon è diventata il gigante che è grazie a mosse che hanno ridefinito le nostre aspettative.
    Pensiamo a Prime, a Kindle, o all’acquisizione di Whole Foods, per trasformarsi in ciò che il suo carismatico fondatore, Jeff Bezos, chiama l’everything store (il negozio del mondo dove si può trovare ormai di tutto). L’innovazione è un filo rosso e una forza propulsiva.
    Cresce chi sa leggere le novità, o meglio, le anticipa.
    Gli altri perdono posizioni.
    Che peso avranno, allora, nel marketing di domani intelligenza artificiale e realtà aumentata?
    Per aziende come Google o Apple è impressionante la rapidità di adozione di tecnologie sofisticate, come ad esempio il riconoscimento vocale.
    Lo scorso anno, nel corso di uno studio, un consumatore si è lamentato del fatto che non sia ancora possibile acquistare una casa su Amazon.
    Magari è solo una questione di tempo … 
  • Complimenti per aver letto la mia 7 Notizie in 7 Minuti!
    Intendi essere una persona finanziariamente evoluta, una persona a cui piace informarsi e dedicarci del tempo.
    Un piccolo ma importante passo verso una maggiore consapevolezza (anche) finanziaria.

    Ci ritroveremo Lunedì 16 Marzo con una mia nuova uscita.
    Ti auguro una serena settimana!
    Un caro saluto,

    Davide