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www.davideberto.it2024-10-11
  • Nel mondo della Consulenza Finanziaria stanno entrando dei nuovi attori, fatti di algoritmi e di intelligenza artificiale.
    Sono i cosiddetti robo advisor ad attirare nuovi interessi, anche se, al momento, la clientela italiana è ancora più propensa ad instaurare una relazione di fiducia con il proprio Consulente fisico, in grado di rassicurarla e supportarla nella comprensione delle dinamiche di mercato.
    Per il risparmiatore italiano è rilevante il supporto di un esperto, la possibilità di confrontarsi e di essere rassicurati soprattutto nelle fasi negative di mercato.
    Gli investitori italiani mostrano inoltre ancora livelli di digitalizzazione inferiori ai cugini europei (siamo al 26° posto di questa classifica).
    Non ci sono pasti gratis nel mondo della finanza e del risparmio, e la “nuova sfida” è più che mai legata a qualità del servizio, una maggiore attenzione ai costi e al corretto orizzonte temporale degli investimenti.
    Il contesto in cui questa sfida si svolge è però un po’ desolante se si pensa che l’80% degli investitori italiani non sa di pagare un servizio di consulenza finanziaria.
    Il 50% non ha poi conoscenze di base in campo finanziario e il 40% non conosce i benefici di una congrua diversificazione.
    Il mantra del mondo della Consulenza Finanziaria è sempre più quello di uscire dalle logiche di prodotto per passare invece alle logiche di servizio.
    Ma il primo vero servizio che, a mio parere, dev’essere offerto è quello dell’educazione finanziaria.
    La formazione è un fattore importante per tutti.
    Non solo per i Consulenti, ma anche per gli investitori che un po’ di tempo dovrebbero dedicarlo all’acquisizione di competenze.
    Questo è il primo passo che può dire quanto sia veramente sostenibile il Consulente, virtuale oppure, come nel mio caso, in carne ed ossa.

    Che ne pensi in merito?
    Mi piacerebbe ricevere la tua opinione.

    Buona lettura di questa "Italy Special Edition"!
  • 1 - UN VIAGGIO NEL NOSTRO DEBITO

    Nel corso del 2019 il debito pubblico italiano si è accumulato di ben 176 milioni di euro al giorno, pari a 5,3 miliardi al mese, oltre 64 miliardi in un solo anno.
    Per capirsi, un valore oltre 20 volte superiore a quello della riforma del cuneo fiscale da poco approvata dal Governo giallorosso, per la quale sono stati stanziati 2,9 miliardi, e quasi il doppio rispetto alle risorse messe sul piatto per l’intera Legge di Bilancio.
    Anche se negli ultimi anni le spese per interessi sono diminuite passando dal 5,2% del Pil nel 2012 al 3,7% dello scorso anno, grazie ad un contesto macroeconomico dominato da tassi piatti o addirittura negativi, l’indebitamento dell’amministrazione pubblica si conferma il grande fardello che affligge l’Italia da quasi 70 anni.
    Il debito pubblico italiano ammonta oggi a 2.420 miliardi di euro, pari a 40.075 euro pro-capite.
    Cifre in aumento rispetto al 2018, quando, stando a Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, valevano rispettivamente 2380 miliardi per 38.543 euro a persona.
    Per avere un termine di paragone, con questa somma totale si potrebbe coprire quasi un anno di economia francese, la sesta al mondo, il cui Pil ammonta a 2.790 miliardi.
    Il dato poterebbe tuttavia non sorprendere se confrontato con quello di Paesi come gli Stati Uniti (20.000 miliardi per quasi 60.000 ad abitante) e il Giappone (10.800 miliardi per 85.000 in capo ad ogni singolo).
    Ma è in percentuale sul prodotto interno lordo che il debito della penisola mostra la sua vera faccia, collocandoci al sesto posto tra gli Stati meno virtuosi al mondo con un rapporto deficit/pil del 134,8%.
    Sul podio Giappone, Sudan e Grecia (rispettivamente 236 - 207 e 163%), mentre sono più lontani gli altri principali paesi europei come Francia, Spagna, Regno Unito e Germania (98,4 – 97,6 – 85,9 e 62%).
    Il nostro debito attuale si attesta, nel suo rapporto verso il Pil, al secondo valore più alto mai toccato dall’unificazione del Paese, dietro a quello degli anni 20, quando gli sforzi per la Grande Guerra portarono il debito al record del 160% del Pil.
    Ma chi lo detiene attualmente il nostro debito?
    I dati forniti da Banca d’Italia e relativi a Ottobre 2019 evidenziano come esso sia ripartito esattamente a metà tra mercato interno ed esterno.
    Tra i residenti, cui spetta il 50,2% del totale, primeggiano società di gestione del risparmio ed hedge fund (fondi speculativi), in leggero incremento rispetto al 2018 (23,2%).
    Segue il sistema bancario, stabile al 19,5% (472 miliardi), Bankitalia con solamente il 5%, gruppi non finanziari e persone fisiche con la loro fetta al 2,5%.
    Agli stranieri spetta invece l’altra metà del bottino, tra questi la parte del leone è giocata dai privati (32,8%), mentre la Bce ha abbassato negli ultimi 18 mesi la sua esposizione arrivando al 17%.
    A livello geografico infine, ben il 76% del debito nei portafogli stranieri è collocato all’interno dell’Eurozona, con la Francia al 20 e la Germania al 12%.
    Questo dato dimostra come gli investitori dei due paesi stiano destinando un’importante attenzione ai titoli del debito italiano, che nell’attuale contesto di tassi negativi o quantomeno stagnanti offrono rendimenti più elevati rispetto a quelli dei loro bond nazionali.
    Ad esempio, il decennale tedesco tratta attualmente a un rendimento negativo dello 0,4%, mentre il corrispettivo italiano paga un positivo 0,92%.
    Esposizione comunque importante anche per Spagna (13%) e Irlanda (7%).
    Fuori Eurolandia invece, i maggiori investitori vengono dal Giappone (5%), dagli USA (4%) e dal Regno Unito (2%).
    Perdonami tutti questi dati percentuali.
    Mi auguro non ti sia venuto un giramento di testa ...
  • 2 - ALZANDO LO SGUARDO ALLE STELLE DELLO STAR

    L’indice STAR di Borsa Italiana (acronimo di Segmento Titoli con Alti Requisiti) è composto al suo interno da aziende italiane di medie dimensioni, la cui capitalizzazione di borsa può raggiungere al massimo un miliardo di euro.
    Dello STAR fanno oggi parte circa 80 società con obbligo di relazioni trimestrali sui conti in italiano e in inglese, e copertura da parte di più analisti.
    Per resilienza e rendimenti generati negli anni, lo STAR è stato spesso messo a confronto addirittura con il paniere NASDAQ dei titoli tecnologici di Wall Street.
    Nello STAR è quotata una rappresentanza della dorsale delle medie imprese italiane, in molti casi delle vere eccellenze mondiali capaci di spaziare dal classico settore industriale (Ima, Elica, Interpump …), al settore dei servizi (Amplifon ad esempio), dai videogiochi di Digital Bros al settore fieristico con Fiera Milano.
    I numeri dell’indice dicono tutto o quasi.
    Dalla nascita nel 2001 ad oggi, il segmento è cresciuto del 300%.
    Il Ftse Mib delle più importanti 40 aziende quotate ha perso invece il 50%.
    Nello stesso periodo il Nasdaq ha guadagnato, ad esempio, il 370%.
    Oltre quindi a fare meglio del listino principale con una certa costanza, i titoli STAR in diversi casi hanno anche la buona abitudine di staccare ricche cedole.
    In rampa di lancio vi sono poi due prossime quotazioni: il gruppo bolognese Gvs probabilmente entro Aprile (uno dei maggiori produttori mondiali di filtri e componenti per applicazioni in settori altamente regolamentati, dal medicale all’automobilistico), e Italian Sea Group (società di Marina di Carrara operativa nel settore nautico e nella costruzione di superyacht).
    Se dopo questo approfondimento ti dovesse allora venir voglia di allocare una piccola parte dei tuoi investimenti nelle aziende d’eccellenza del made in Italy, segui il mio consiglio di affidarti in primo luogo ad un Professionista, e in secondo luogo di vederlo come un investimento di lungo periodo nell’economia reale, per poter sfruttare i solidi fondamentali e le prospettive di crescita di queste importanti realtà di casa nostra.
  • 3 - IL VINO ITALIANO GUARDA SEMPRE PIU' ALL'ESTERO

    Il Prosecco spopola nel Regno Unito, Brunello, Nobile di Montepulciano e Chianti classico negli Stati Uniti, Barolo e Barbaresco in Canada, l’Amarone riconquista estimatori in Germania e l’Asti riprende posizioni prima perdute in Russia.
    Sono questi i vini italiani più export oriented secondo quanto emerge da uno studio realizzato per il Sole 24 Ore sui dati doganali relativi a primi dieci mesi del 2019.
    Al primo posto troviamo allora l’universo del Prosecco (ne fanno parte le due Docg del Prosecco di Conegliano Valdobbiadene e Colli Asolani, e la macro Doc che arriva fino al Friuli), che secondo i dati elaborati ha esportato a Ottobre 2019 un controvalore di ben 870 milioni di euro (in crescita del 17,6% sul 2018).
    A seguire ci sono i Rossi Dop toscani (Brunello di Montalcino, Nobile di Montepulciano e Chianti classico su tutti) che hanno registrato nei 10 mesi del 2019 un giro d’affari estero di 442 milioni (+0,9%).
    Al terzo posto i vini Rossi Dop del Veneto che, con 232 milioni di euro (+7,8%), precedono di poco i Rossi Dop piemontesi (Barolo e Barbaresco su tutti) con un fatturato fuori Italia di 225 milioni (+10,6% rispetto ai dati 2018).
    A chiudere la cinquina delle denominazioni export oriented un’altra gloriosa etichetta, quella dell’Asti Dop con un giro d’affari di 103 milioni (in calo del 5,7%).
    Complessivamente poco meno del 50% dell’export italiano di vino.
    Il Prosecco, che non ha ancora esaurito la sua spinta propulsiva, si conferma allora vero e proprio perno del vino italiano da esportazione, a dispetto invece del rallentamento dei rossi toscani e del calo dell’Asti che si riprende però posizioni perdute sul promettente mercato russo.
    Per 3 delle 5 più importanti etichette, quello americano si conferma come il mercato principale, di gran lunga il primo mercato per l’intero vino italiano.
    Fanno eccezione i vini Rossi Dop veneti che come primo sbocco hanno la Germania, e il Prosecco che eccelle invece nel Regno Unito.
    Ma anche queste due etichette vedono comunque gli USA al secondo posto.
    Per tutto questo i possibili dazi minacciati da Trump fanno molta paura.
    Gli Stati Uniti sono infatti sì il primo mercato, ma sono anche quello con le maggiori prospettive di crescita a medio termine se si pensa che i vini italiani sono attualmente diffusi solo in alcuni stati, e avrebbero allora grandi chance di sviluppo solo riuscendo a migliorare diffusione e penetrazione in aree degli USA ancora inesplorate.
    I dazi potrebbero pertanto far venir meno uno sbocco di grandi prospettive, al quale nel medio termine sarebbe difficile trovare alternative.
    Scartabellando i dati relativi all’export nei primi 10 mesi dello scorso anno, emergono alcune performance degne di nota.
    Nel complesso, per l’export di vino made in Italy, si va dal +17,7% del Giappone al +15,5% della Polonia, dal +13,3% della Russia al +6,5% del Canada.
    Mercati questi non ancora di prima fascia ma in costante crescita.
    Non manca poi l’effetto “vendita di frigoriferi agli eschimesi” dato dal +13,3% degli acquisti di vino italiano da parte della Francia, trainato da un incredibile +42,2% del Prosecco.
    Gli elementi di ottimismo allora non mancano, ma sostituire il mercato USA in caso di dazi sarà dura.
    Sarebbe meglio dunque evitarli...
  • 4 - TORNA LA FABBRICA IN TOSCANA

    La grande crisi dell’ultimo decennio è ancora dietro l’angolo a spargere timori e prudenza, restano anche casi critici, ma il fenomeno nuovo è che le aziende toscane più dinamiche, quelle che hanno agganciato business e mercati in crescita, sono tornate a progettare fabbriche.
    Non si limitano quindi “solamente” a sostituire macchine e impianti, ma prevedono la costruzione di stabilimenti produttivi o il significativo ampliamento di quelli esistenti.
    Dopo dieci anni di torpore industriale, il tabù sembra così essere finito.
    Da Firenze ad Arezzo, da Prato a Lucca, da Pisa a Siena, si moltiplicano gli annunci di nuove fabbriche per complessivi circa 500 milioni di euro di investimenti.
    Questo avviene nei tradizionali distretti industriali, ma avviene anche in aree non distrettuali, per mano di multinazionali e anche aziende familiari.
    Best performer sono la pelletteria e la farmaceutica, trainati dai grandi marchi.
    Yves Saint Laurent (brand del gruppo Kering) realizzerà a Scandicci una manifattura di borse da 28 mila mq per un investimento da 30 milioni di euro.
    Fendi (gruppo Lvmh) sta avviando la costruzione di una nuova fabbrica da 15 mila mq a Bagno a Ripoli, vicino Firenze, per un costo di 40 milioni.
    Celine (sempre della francese Lvmh) ha inaugurato quattro mesi fa la fabbrica di borse in foto (20 milioni di investimento) a Radda in Chianti.
    Ancora, Lvmh ha annunciato il potenziamento delle manifatture di pelletteria Loro Piana e Bulgari, sempre a Firenze, e la costruzione del primo stabilimento dedicato alle borse Louis Vuitton.
    Anche il gruppo vicentino della concia Mastrotto, restando alla filiera della pelle, ha appena costruito una conceria da 12 mila mq per un investimento di 15 milioni, mentre l’azienda familiare Ivo Nuti ha realizzato un nuovo stabilimento, sempre da 15 milioni, aumentando così del 30% la sua capacità produttiva.
    Trainate dal successo di mercato delle borse di lusso, investono anche i produttori di accessori.
    Nella logistica ha poi investito la maison del lusso Ferragamo, che ha realizzato un centro da 20 mila metri quadrati vicino Firenze per un investimento da 40 milioni.
    Anche l’aretina Monnalisa (moda junior) ha aggiunto 7 mila mq allo stabilimento per aumentare la capacità logistica.
    La farmaceutica mette poi sul tavolo sette nuove fabbriche, con, tra le altre, il colosso Menarini a Rapolano (Siena) e la multinazionale Lilly che investirà addirittura 100 milioni per allargare lo stabilimento di Sesto Fiorentino.
    Non mancano importanti investimenti anche da parte di Gsk, Kedrion, Diagnostica Senese e Pharmanutra.
    Anche Abb ha recentemente annunciato la costruzione di una fabbrica per le colonnine elettriche di ricarica nei pressi di Arezzo.
    In tutto questo dinamismo soffre però la zona costiera, che non ha in vista la costruzione di nuove fabbriche se non l’ampliamento da 20 milioni che intende realizzare il cantiere nautico The Italian Sea Group di Marina di Carrara, azienda con un giro d’affari di 84 milioni di euro che si sta preparando, come visto al punto 2, per lo sbarco a Piazza Affari.
  • 5 - LA DIFESA CHE FUNZIONA

    Non capita spesso che nella stessa settimana, o addirittura nello stesso giorno (era Martedì 14 Gennaio), la cronaca economica riporti due importanti notizie che attestano la vitalità dell’industria italiana della difesa.
    La prima notizia ha riguardato il varo di Naviris, la joint venture italo-francese nel campo della navalmeccanica militare realizzata da Fincantieri e Naval Group.
    La seconda invece un’importante commessa che il gruppo Leonardo si è guadagnato negli USA con la fornitura di 32 elicotteri alla US Navy.
    Si guarda con sempre più interesse alle commesse statunitensi nel settore della difesa.
    Il bilancio della difesa americana, spinto dalla politica di Donald Trump, è infatti arrivato in questo periodo a livelli addirittura superiori a quelli del tempo della Guerra Fredda.
    Giuseppe Bono (Amministratore Delegato di Fincantieri) punta a vincere la gara per la fornitura di 20 fregate per la Marina americana.
    Alessandro Profumo (AD di Leonardo) si aspetta invece che la commessa dei 32 velivoli si estenda a 130 macchine complessive entro il 2024.
    Ricordo che Fincantieri è posseduta per il 71% da Cassa Depositi e Prestiti, mentre Leonardo, il cui titolo azionario è quotato alla Borsa di Milano, è per il 30% del capitale di proprietà del Tesoro italiano.
    I due gruppi possono, in tutto questo, giocarsi una carta importante, quella del buy american (compra americano) visto che entrambi producono negli States, Bono nei tre cantieri del Wisconsin, e Profumo nell’impianto di Philadelphia.
    Per Leonardo si tratta allora di un successo commerciale importante, visto che in America non è mai facile affermarsi.
    Per Naviris è invece un passo in avanti dell’intera politica industriale europea, con lo scopo di offrire navi militari sui mercati più difficili e competitivi.
    Gli obiettivi di Naviris (sede a Genova e una controllata in Francia a Ollioules) sono sostanzialmente due: iniziative comuni italo-francesi ed export.
    Il primo dossier è quello relativo all’ammodernamento del caccia torpediniere Horizon, e lo sviluppo di una corvetta europea per il pattugliamento di nuova generazione.
    Sul versante Leonardo, il recente exploit acquista più valore se si considera che è la prima volta che il gruppo italiano si presenta come prime contractor:
    Nella precedente tornata, che pure lo aveva portato a vendere all’esercito yankee 84 elicotteri, l’azienda era infatti in partnership con Boeing, mentre in questo caso ha battuto la concorrenza sia dell’europea Airbus, che dell’americana Bell.
    La fornitura è poi ad alto valore aggiunto perché va al di là delle macchine, prevedendo anche servizi di assistenza post-vendita a partire dall’addestramento.
    Quella che era considerata una classica industria push, dove bastava mettere in produzione le macchine per venderle, è oggi diventata pull, in quanto occorre convincere il mercato del proprio valore aggiunto rispetto alla concorrenza.
    Il cliente è dunque il dominus assoluto.
    Se poi si chiama Donald Trump ... lo è ancora di più!
  • 6 - CNH SOSTENIBILE

    In tempo di blocchi alla circolazione per colpa dello smog e della cattiva qualità dell’aria, lo smart working può essere prezioso.
    Per smart working si intende una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.
     Così impiegati e quadri di Cnh Industrial a Torino e provincia (circa 3.000 persone) potranno raddoppiare, fino a fine Febbraio, le giornate di “lavoro agile” da uno a due giorni alla settimana.
    Una scelta che punta a ridurre i disagi a fronte dei blocchi del traffico, e a tagliare i chilometri percorsi nell’area metropolitana della città piemontese.
    Lo scorso anno sono stati oltre 4.700 i dipendenti Cnh in Italia ad aver avuto la possibilità di lavorare da casa un giorno alla settimana.
    Le giornate lavorate da casa in totale nel 2019 sono state oltre 72mila, con un risparmio di 75mila ore trascorse nel traffico.
    In media, è stato calcolato, 21 ore in meno per ogni dipendente che ha aderito, con un risparmio economico (carburante e altro) e un beneficio nel bilanciamento tra vita lavorativa e personale dei dipendenti.
    In generale sono stati 2 milioni e mezzo i chilometri percorsi in meno  per gli spostamenti casa-lavoro.
    Nel caso dell’iniziativa promossa a Torino, la quantità di chilometri risparmiati è stata stimata in circa 350mila tra la città e la provincia.
    Ricordo che Cnh Industrial è un colosso industriale della galassia FCA (Fiat Chrysler Automobiles con sede legale ad Amsterdam), operante nella produzione e nel commercio di macchine per l’agricoltura (New Holland), macchine per il movimento terra e le costruzioni, autobus e veicoli industriali (Iveco).
    L’azienda è inoltre quotata in Borsa a Milano (FTSE MIB) e a New York (NYSE).
  • 7 - CHE NE SARA' DI BARI?

    1.400 milioni di euro per ora.
    A tanto ammonta il buco che la trentennale gestione della famiglia Jacobini (Marco affiancato in tempi più recenti dai figli Gianluca e Luigi) ha causato nei conti della Banca Popolare di Bari di cui tanto si parla da alcuni mesi.
    Un buco che trascina a fondo i risparmi di circa 70 mila soci che avevano riposto nelle azioni non quotate della cooperativa barese la loro fiducia (e non solo …).
    Lo stesso schema visto allora a Vicenza, con Zonin presidente e Sorato alla guida operativa, e a Montebelluna, in casa Veneto Banca, con la coppia Trinca-Consoli.
    Tutte banche popolari rette da una governance fallimentare.
    Anche se Vicenza e Veneto hanno causato un danno ben più rilevante ai loro soci (oltre 11 miliardi di euro solo di azioni andate in fumo), l’incidenza della Popolare di Bari sul territorio pugliese e del Meridione è di primissimo piano.
    A fronte allora di un buco stimato per ora pari a 1.400 milioni, il FITD (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) si è mosso deliberando fino a un massimo di 700 milioni di euro di intervento, lasciando la quota restante al Mediocredito Centrale controllato dal Tesoro.
    Ma le inchieste in corso della magistratura barese potrebbero aprire una realtà diversa e più grave, come molti sospettano: affidamenti concessi in assenza di garanzie che potrebbero allargare la necessità di intervento anche di altri 400 milioni di euro.
    Un’ipotesi raggelante perché il FITD, con i denari delle banche italiane aderenti, già recentemente è dovuto intervenire a Genova in casa CARIGE.
    Sul piano operativo della banca, garantita per ora la continuità aziendale, i commissari si trovano davanti a un piano di ricostruzione certamente a dir poco complicato.
    Andranno ceduti prestiti non performanti per 1,9 miliardi di euro e andrà rivista la rete degli sportelli, molto diffusa al Sud, che comporterà la riduzione di circa 900 dei 3.000 dipendenti della banca (il 30%).
    Sarà poi arduo individuare una banca disposta a farsi carico del futuro della Popolare di Bari.
    Ad oggi ogni sondaggio è andato deserto: del “cavaliere bianco” nessuna traccia.
    Nessuno infatti si è dimostrato disposto ad andare oltre l’impegno consortile fissato dalla adesione al FITD.
    La Popolare di Bari non fa (comprensibilmente) gola a nessuno: troppi i nodi ancora da sciogliere, troppe le incognite dopo trent’anni di un uomo solo al potere.
    Nel frattempo, Marco Jacobini e il figlio Gianluca sono finiti in custodia cautelare agli arresti domiciliari nella giornata di Venerdì 31 Gennaio.
    Secondo i recenti accertamenti governavano la banca “con lo sguardo”, con un potere assoluto che celava il dissesto dell’istituto attraverso la manipolazione dei bilanci dal 2015 al 2018.
    Un “sistema” che aveva lo scopo di ingannare il mercato, e di garantire alla famiglia la corresponsione di “remunerazioni ingenti e completamente fuori mercato” (si ritiene infatti abbiano percepito dal 2011 al 18 retribuzioni complessive pari a oltre 10 milioni di euro gravanti sui bilanci societari e senza alcun ridimensionamento visto lo stato di salute dell’istituto).
    Avanti allora il prossimo dissesto bancario …
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    In questo modo, se ti va, potrai rileggere tutte le uscite fin da Aprile 2019.

    Ci ritroveremo Lunedì 2 Marzo con una nuova 7 Notizie in 7 Minuti.
    Ti auguro una felice settimana!
    Un caro saluto,

    Davide