Se dopo anni d’immobilismo, negli ultimi 12 mesi sono state stabilite le 5 migliori prestazioni cronometriche della storia della maratona maschile, e frantumato il primato mondiale femminile, un motivo (logico, fisiologico, tecnologico) ci deve pur essere.
Questo motivo probabilmente è nascosto nel paio di scarpe dalla curiosa forma di banana, in colori che variano dal rosso al rosa al bianco, e del peso di 199 grammi, indossate da tutti gli atleti keniani che hanno corso a cavallo delle due ore o rompendo
addirittura quel muro (nel caso del tentativo non ufficiale lo scorso settembre a Vienna di Eilud Kipchoge) che per la maratona sembrava inscalfibile.
Sulle scarpe Nike Vaporfly nelle versioni 4% o Next, prodotte negli ultimi 3 anni in almeno 4 diverse configurazioni sempre più evolute, sta infuriando una polemica che nello sport non si vedeva dai tempi delle protesi di Oscar Pistorius.
In realtà, dai tempi di Abebe Bikila (vinse a piedi nudi la maratona olimpica di Roma 1960 per l’impresa più bella della storia del running) al 2016, la scarpa del maratoneta si era evoluta pochissimo.
Fino al 2016, appunto, anno in cui in Oregon, a Portland dove ha sede Nike, i ricercatori hanno rivoluzionato tutto sfruttando anche un’assenza di regole che in qualunque altro sport farebbe scandalo.
Per la federazione internazionale di atletica (IAAF) le scarpe semplicemente non devono consentire vantaggi antisportivi a chi le indossa, e devono essere disponibili a tutti in ragionevole quantità sul mercato.
Con così ampi margini di movimento, Nike ha sostituito la tradizionale gomma della suola con il Peba (Pebax commercialmente, un ammide a blocchi ricavato in parte dall’olio di ricino) che garantisce enorme elasticità.
Poi ha alzato lo spessore della suola fino a 36 millimetri (una sorta di zeppa), aumentando l’inclinazione in avanti come se le scarpe avessero il tacco, inserendo nell’intersuola una lastrina di carbonio che conferisce al tutto una grande rigidità.
I prototipi prima, e i modelli in commercio poi, sono stati testati fino a distruggerli da ricercatori indipendenti e dalla concorrenza a caccia di segreti.
I risultati sono inequivocabili: il risparmio energetico dei modelli “col tacco” arriva al 4% consentendo così un miglioramento dei tempi in maratona, per atleti di altissimo livello, compreso tra i due e i tre minuti e mezzo. Insomma, la differenza tra
un maratoneta da podio e un fuoriclasse della disciplina.
La suola in pratica restituisce l’87% dell’energia che il piede rilascia sull’asfalto, rispetto al “solo” 65% dei migliori modelli della concorrenza, aumentandone le prestazioni.
Nike è depositaria unica del brevetto che concede solo ai suoi atleti di punta, non a caso divoratori di vittorie e primati mondiali.
E poi ovviamente a chi, libero da sponsorizzazioni, compra le scarpe in negozio dove però non si trovano i modelli più recenti.
Proprio grazie alla rottura del muro delle due ore, Kipchoge è stato curiosamente premiato dalla federazione mondiale a Montecarlo come atleta dell’anno, pur avendo stabilito il record a Vienna in una corsa non omologata, senza avversari e con 35 lepri
e un puntatore laser a dettargli il ritmo.
Un’impresa che però non sarebbe stata tale senza le Vaporfly ai piedi.
Secondo alcuni ricercatori in ambito biomeccanico, una scarpa non è più “fisiologica” quando la suola ha uno spessore superiore ai tre centimetri, e nel momento in cui all’interno del battistrada viene inserito un elemento in metallo.
La risposta del piede al contatto sull’asfalto, in questo modo, esulerebbe dalla naturalezza del passo umano.
La questione ha ovvie ricadute di marketing su vasta scala.
Con tutto questo, non certo per darti un consiglio di investimento, Nike è azienda quotata al NYSE di New York, e il suo titolo azionario è ai massimi di sempre a quota 97,20 dollari.