Qual è il momento migliore per investire?
C’è ancora qualcuno che, conoscendo il mio ambito professionale, mi chiede questo.
I mercati sono al limite della crescita o c’è spazio per ulteriori rialzi?
I mercati finanziari salgono da Marzo 2009, per il rialzo più “lungo” della storia.
Questo fa ipotizzare, da parte di alcuni, che anche solo per ragioni statistiche questa corsa potrebbe interrompersi presto.
Chi aveva fatto questa nefasta previsione alla fine dello scorso anno, quando la forte correzione di Dicembre aveva lasciato intendere che il crollo fosse appena cominciato, si è perso tutto il forte rialzo che invece, fino ad oggi, i mercati finanziari hanno generato nel corso del 2019.
Ma è allora possibile prevedere cosa accadrà domani?
Anche il Fondo Monetario Internazionale continua a rivedere le sue stime, a dimostrazione del fatto che anche chi ha accesso a tante informazioni non riesce poi a fare previsioni accurate.
Figuriamoci noi poveri mortali …
Allora la risposta corretta alla domanda iniziale (Qual è il momento migliore per investire?) è SEMPRE.
E’ SEMPRE infatti il momento giusto per investire al meglio, una volta individuato l’obiettivo di investimento e dopo attenta diversificazione.
SEMPRE quindi, perché nessuno (almeno credo) può sapere cosa accadrà domani …
Buona lettura !
- ABBIAMO UN RECORD (QUESTA VOLTA NON PROPRIO NEGATIVO)
Il più recente Global Wealth Report dell’istituto di ricerca di Credit Suisse, pubblicato lo scorso mese, ha certificato il primo posto del nostro paese all’interno di un gruppo di economie ricche o molto dinamiche.
La classifica riguarda una proporzione, quella delle dimensioni della ricchezza patrimoniale delle famiglie in confronto al prodotto interno lordo (Pil).
Dall’inizio del secolo l’economia italiana ha conosciuto una crescita media annua inferiore allo 0,5%, in verità un’assoluta stagnazione una volta inclusa nel calcolo la perdita di valore nel tempo di beni come i macchinari, le infrastrutture e gli edifici non rinnovati.
Di fronte a questo dato, il patrimonio totale delle famiglie non fa che crescere.
Questo patrimonio nel 2000 valeva poco meno di 5 volte il fatturato del Paese in un anno, vale non molto meno di 6 volte oggi.
Il valore stimato degli immobili e quello di mercato degli investimenti finanziari sale da vent’anni più del reddito da lavoro (o da pensione) degli italiani.
La divaricazione fra le due velocità (reddito e ricchezza) è tale che nel 2019 il Paese balza al primo posto in questa particolare classifica, superando persino la Svizzera.
Viviamo nel paese nel quale le famiglie (in media e nei grandi numeri) sono più facoltose in proporzione alla dinamica prodotto nell’economia.
Persino più che in Germania, dove l’uno per cento più ricco controlla una quota maggiore del patrimonio, o negli Stati Uniti che ospitano il 40% dei milionari nel mondo.
L’Italia dovrà pur finire per assomigliare di più alla media delle altre principali economie, e le strade che portano in questa direzione possono essere due: o il patrimonio cumulato delle famiglie calerà fino a raggiungere un multiplo meno alto rispetto al reddito nazionale (il patrimonio non sarà più sei volte più grande del Pil ma tre o quattro volte, ad esempio), oppure il reddito nazionale stesso salirà riequilibrando verso l’alto le dimensioni del fatturato Paese rispetto alla ricchezza delle persone.
L’attuale squilibrio italiano sembra insostenibile, per il semplice fatto che è così raro nel mondo.
Qualcosa, in qualche modo, deve cambiare.
Gli analisti hanno alcune osservazioni da fare.
La prima è che nel lungo termine l’andamento dei patrimoni delle famiglie tende a rispecchiare da vicino quello del Pil.
In altri termini, una divergenza fra ricchezze e reddito prima o poi deve chiudersi e rientrare verso la media. E tale media nel lunghissimo periodo si aggira intorno a una ricchezza patrimoniale delle famiglie tre volte più vasta del fatturato di un anno del loro Paese (poco più della metà degli attuali livelli italiani).
L’evidenza storica suggerisce che le economie con livelli inusualmente alti di ricchezza rispetto al Pil, sostenuti da alti prezzi degli attivi, possono essere molto vulnerabili con l’arrivo di una recessione.
L’Italia sembrerebbe esattamente giunta a questo bivio.
Il Paese avrebbe disperato bisogno di usare meglio la grande ricchezza media delle sue famiglie per stimolare la crescita dell’economia.
Per ora non lo fa, o almeno non abbastanza.
E domani potrebbe essere troppo tardi.
- IL NUOVO “PONTE ELETTRICO” TRA EUROPA E BALCANI
423 chilometri di cavi sotto le acque adriatiche fino a 1.200 metri di profondità, e altri 22 chilometri interrati per una potenza di 600 megawatt che Terna e l’omologa montenegrina Cges sono pronte a raddoppiare a fronte di un investimento di circa 1,1 miliardi di euro.
Sono questi i numeri del nuovo “ponte elettrico” totalmente invisibile, il primo tra Europa e Balcani, posato sul fondo del mar Adriatico.
445 chilometri totali di cavo che si snodano dall’impianto completamente automatico di Terna a Cepagatti, stretta tra le montagne abruzzesi, per poi immergersi a 16 chilometri da qui, sulla costa pescarese, e approdare a Budua, sulla sponda montenegrina, da dove risalgono poi fino alla stazione di Lastva, nel comune di Cattaro (Kotor).
Un’infrastruttura all’avanguardia, il più lungo collegamento sottomarino ad alta tensione mai realizzato da Terna, tenuto a battesimo Venerdì 15 Novembre dall’ad Luigi Ferraris nel corso di una cerimonia, alla presenza anche del capo dello Stato Sergio Mattarella.
Per vedere in funzione questa infrastruttura in corrente continua, la cui storia parte nel 2007 con il primo accordo intergovernativo, bisognerà attendere l’inizio del 2020.
Un nuovo ponte dell’energia che rappresenta un passaggio fondamentale, non solo per il futuro degli approvvigionamenti dei due paesi (il Montenegro aspirerebbe fin dal 2008 a un posto nella UE), ma anche un’opera imprescindibile per il Paese e una boccata d’ossigeno per l’economia locale.
Settore, quello delle infrastrutture, molto interessante anche in ottica di pianificazione finanziaria.
- A 67 ANNI FINO AL 2021
I requisiti per la pensione di vecchiaia non cambieranno e resteranno pari a 67 anni fino alla fine del 2021.
La conferma è arrivata nei giorni scorsi dal decreto del ministero dell’Economia e del Lavoro appena pubblicato in Gazzetta Ufficiale, sulla base dell’indicazione Istat di una crescita di appena 0,021 decimi di anno della speranza di vita a 65 anni.
Nulla cambia, naturalmente, anche per la pensione anticipata con il requisito di 42 anni e 10 mesi di contributi (41 e 10 mesi per le donne) oltre a tre mesi di finestra mobile, fermo fino al 31 Dicembre 2026.
Fino al 2021, a meno di modifiche nella prossima manovra di bilancio, si potrà invece approfittare del pensionamento agevolato dalla cosiddetta Quota 100, che richiede almeno 62 anni di età e 38 di contributi.
Nei primi nove mesi del 2019, sulla base dell’ultimo monitoraggio Inps, le pensioni di vecchiaia liquidate sono state 63.926, a fronte delle 141.861 dell’intero 2018.
L’uscita dal lavoro per vecchiaia è stata infatti assolutamente minoritaria rispetto agli altri canali.
- 60 MILIARDI SULLA SFIDA ELETTRICA
E’ la cifra recentemente stanziata da Volkswagen in investimenti entro il 2024, per lo sviluppo di ibridizzazione, mobilità elettrica e digitalizzazione.
Nonostante i chiari di luna sull’industria globale dell’auto, la casa di Wolfsburg tira dritto.
Le grandi case mondiali sono oggi alle prese con i costi della rivoluzione elettrica (imposta da stringenti politiche UE sulle emissioni) e della guida autonoma.
Centinaia di miliardi di investimenti che di qui a qualche anno renderanno un’impresa fare margini e distribuire dividendi.
Proprio nei giorni scorsi Daimler ha ammesso che i margini dei prossimi due anni saranno seriamente limitati da costi e vendite non brillanti.
Il primo costruttore di auto al mondo, con oltre 10 milioni di veicoli venduti all’anno attraverso i suoi 12 brand, ha pertanto annunciato questo investimento monstre, una cifra superiore di 16 miliardi rispetto a quella indicata da Vw solo un anno fa.
33 di questi 60 miliardi saranno dedicati alle auto a propulsore elettrico.
La percentuale di investimenti dedicati alle auto ibride e alla spina salirà dal 30% indicato lo scorso anno al 40%.
Volkswagen intende introdurre fino a 75 modelli completamente elettrici, con circa 26 milioni di e-car prodotte nei prossimi 10 anni, rispetto a un obiettivo precedente di 22 milioni.
Probabilmente a Wolfsburg sono sicuri che dopo un avvio poco entusiasmante del mercato dell’elettrico, che si traduce in volumi non in grado di sostenere i costi degli investimenti, i clienti sceglieranno sempre di più le auto elettriche.
Nel 2020 esordirà tra l’altro la prima piccola elettrica di Vw, la ID.3 con un costo sui 30mila euro, una sfida che l’azienda non vuole e non può perdere.
In soccorso arriva anche il governo di Angela Merkel, attraverso incentivi per coloro che acquisteranno vetture elettriche a un costo inferiore ai 40mila euro, ma anche con più colonnine di ricarica e il rincaro dei carburanti.
Un investimento mostruoso quello del governo tedesco, circa 100 miliardi di euro, di cui 54 stanziati, entro il 2023.
Le azioni Volkswagen, in tutto questo, fanno segnare un guadagno 2019 pari al 24% (da 142 a 176 euro), con una capitalizzazione della società a quota 91 miliardi di euro.
Nel frattempo, la rivale americana Tesla annuncia di aprire a breve la sua prima gigafactory europea (con nuovo centro di ricerca e sviluppo annesso) nei dintorni di Berlino.
Qui verranno realizzate batterie, ma anche Model 3 e Model Y.
Quella tedesca sembra però essere stata, per così dire, una scelta di ripiego rispetto al piano originario di realizzare uno stabilimento di produzione batterie e macchine elettriche nel Regno Unito.
Con lo stabilimento tedesco il numero totale di gigafactory salirebbe così a quattro (due negli Stati Uniti, a Reno e a Buffalo, e quello in fase di completamento nei pressi di Shanghai con un investimento stimato in due miliardi di dollari).
- UNICORNO TRICOLORE A WALL STREET?
Per unicorno, in ambito finanziario, si intende un’azienda che, quotata in borsa, raggiunge e supera un valore complessivo di un miliardo di euro o dollari.
Negli ultimi tempi gli unicorni hanno dimostrato la tendenza di nascere nei settori più innovativi e legati alla tecnologia.
Questo è anche il caso dell’italianissima Kaleyra, tech company che potrebbe diventare il primo unicorno italiano a Wall Street.
Quest’azienda milanese, che martedì 26 Novembre è sbarcata al NYSE di New York (il più importante mercato finanziario al mondo) raccogliendo capitali freschi per 42 milioni di dollari, in pochi anni si è sviluppata a suon di acquisizioni trasformandosi in una multinazionale della messaggistica.
Fondata a Milano nel 1999 con il nome di Ubiquity, negli anni è cresciuta tanto da diventare leader in Italia nel mercato dei messaggi delle banche.
Nel 2016 ha prima acquisito la concorrente Solution Infini attiva sul mercato asiatico, poi l’americana Hook Mobile, per poi cambiare il nome in Kaleyra, dal greco antico kalos, l’eroe buono.
Gran parte infatti dei messaggi che le banche italiane e le società delle carte di credito inviano ai clienti via sms, per comunicare ad esempio una password temporanea, o informare di un acquisto in tempo reale, sono gestiti proprio dalla piattaforma di Kaleyra.
In India e in Giappone i clienti Amazon vengono avvisati dello stato di spedizione dei loro pacchi da un messaggio che arriva sempre da Kaleyra.
Lo stesso succede per tutte le persone che viaggiano con Uber quando chiamano il tassista tramite l’app, la telefonata è gestita da Kaleyra, oggi la sesta società al mondo nel dinamico mercato dei servizi digitali di comunicazione per le aziende, che con la quotazione e qualche altra acquisizione punta nei prossimi anni a salire sul podio globale.
Pensa, nel 2019 Kaleyra ha inviato qualcosa come 25 miliardi di messaggi e gestito 2 miliardi di chiamate.
La sua presenza è internazionale, con un portafoglio ben diversificato di 3 mila clienti, nessuno dei quali supera il 10% dei ricavi, e un fatturato 2019 previsto in crescita del 32% a 130 milioni di dollari per un ebitda di 10,7 milioni (+46%).
Quello delle piattaforme digitali dei servizi di comunicazione e dei messaggi sms per le aziende è un mercato molto dinamico, con una crescita annua tra il 10 e il 30% a seconda degli analisti, e con una valutazione su base globale di 62,2 miliardi di dollari nel 2018, ma stimata a 96 miliardi nel 2022.
Ora quindi Kaleyra si appresta a diventare una public company per continuare a crescere.
Il valore stimato dell’operazione è di circa 186 milioni, basato su un prezzo di 10,45 dollari ad azione.
Anche il made in Italy riesce quindi a generare valore nei settori più innovativi e tecnologici, good luck Kaleyra!
- TROVATO L’ACCORDO
Nella mia precedente 7 Notizie in 7 Minuti di Lunedì 18/11, avevo trattato del tentativo di acquisto da parte del gruppo del lusso francese Lvmh del marchio, sempre del lusso, a stelle e strisce Tiffany.
In questi giorni è arrivata l’ufficialità dell’operazione, chiusa a un valore complessivo di ben 16,2 miliardi di dollari in contanti (14,7 miliardi di euro), pari a 135 dollari per titolo azionario (+6,17% nella seduta di Lunedì 25).
Alla vigilia dell’ultimo Natale l’azione Tiffany valeva meno di 76 dollari, 80 a metà Agosto.
Con questa nuova importantissima operazione, l’acquisizione più costosa di tutti i tempi nel settore del lusso, Lvmh rafforza la sua presenza negli Stati Uniti e nel comparto dei gioielli, uno dei settori più dinamici e a maggior crescita sul mercato del lusso.
L’offerta francese a Tiffany era partita a Ottobre dai 120 dollari per azione, con un valore complessivo dell’operazione pari a circa 14,5 miliardi di dollari.
L’offerta è poi salita a 130 dollari lo scorso 21 Novembre, e ai 135 finali dei giorni scorsi.
Poco più di un mese di trattative per la più grande acquisizione nella storia del gruppo del miliardario transalpino Arnault, spinto dall’ambizione di tornare a far brillare un marchio iconico dopo un importante processo di trasformazione e rilancio durato alcuni anni, con il titolo azionario Tiffany sceso anche a 60 dollari per azione tra il 2015 e il 2016.
Un rilancio quindi non solo per l’azienda resasi famosa grazie anche all’attrice Audrey Hepburn, ma anche per i suoi azionisti che nel giro di pochi mesi hanno visto più che raddoppiare il valore dei titoli azionari rappresentativi di questo colosso americano da 4 miliardi di ricavi l’anno.
- VOGLIONO I NOSTRI DATI, NON I NOSTRI SOLDI!
Ma di chi starò parlando?
Ovviamente dei big tech americani!
Per un motivo o per l’altro si parla sempre di loro …
Google (in realtà il titolo quotato è Alphabet Inc) ha toccato a Novembre il suo nuovo massimo storico di quotazione in Borsa, a oltre 1.300 dollari per azione, l’equivalente di una capitalizzazione di circa 850 miliardi di dollari.
Anche Apple sta facendo registrare i massimi, ed è tornata a essere la società per grandezza finanziaria più grande al mondo, con una capitalizzazione superiore ai 1.100 miliardi di dollari.
Facebook ha visto risalire le sue azioni del 48% da inizio anno, e solamente Amazon ha brillato meno della media del mercato azionario quest’anno, il 18% contro il 24% dell’indice S&P500, ma conserva sempre una capitalizzazione di tutto rispetto superiore agli 860 miliardi di dollari.
Tutti numeri da capogiro insomma.
Nonostante tutte le polemiche, critiche e indagini sul loro strapotere, i big americani dell’alta tecnologia diventano sempre più grandi e coltivano ambizioni sempre più importanti.
Ora intenderebbero stringere i loro clienti in un rapporto ancora più serrato, offrendo loro direttamente nuovi servizi finanziari.
Ci sarà da fidarsi?
Google ha infatti recentemente annunciato il lancio del suo nuovo “conto corrente intelligente”, dal 2020 e a partire dagli Stati Uniti.
Il nome in codice del progetto è Cache, e sarà sviluppato in collaborazione con il gruppo bancario Citi e con una piccola azienda di credito legata alla Stanford, università californiana dove la stessa Google è stata fondata da Larry Page e Sergey Brin.
Il conto corrente vero e proprio sarà gestito dalle due banche, ma sarà accessibile dai clienti tramite smartphone attraverso il portafoglio digitale Google pay, già funzionante nell’attuale forma dal Gennaio 2018 e sulla strada di avere, secondo stime, 100 milioni di utenti nel 2020.
Google promette che non venderà a terzi i dati dei correntisti, né li userà per fini pubblicitari.
Li terrà per se e ne farà uso per finalità proprie interne.
Il portafoglio digitale Apple pay conta invece già oggi oltre 140 milioni di utenti, e fino alla scorsa estate abilitava a pagamenti attraverso le carte di credito del padrone dell’iPhone.
Da fine Agosto in America è disponibile anche una carta di credito creata da Apple stessa in collaborazione con Goldman Sachs, una delle più importanti banche d’affari al mondo con sede legale a New York.
La novità dello strumento di pagamento consiste in un programma di cash back immediato, attraverso il quale l’utente incassa in dollari da un minimo dell’1% sulla spesa fatta, fino a un massimo del 3% se l’acquisto riguarda prodotti Apple, è può spendere quei dollari restituiti il giorno stesso dell’accredito.
Da metà Novembre in America funziona anche Facebook pay su Messenger, in attesa poi di essere allargato anche alle altre piattaforme del gruppo, WhatsApp e Instagram.
Non è ancora però noto se il servizio sarà presto disponibile anche fuori dall’America.
Si tratta comunque di una iniziativa separata dal tentativo di creare il sistema di pagamenti basato sulla criptovaluta Libra, esperimento fortemente osteggiato dalle autorità di controllo del settore bancario e finanziario sia in Europa che negli USA.
Con Facebook pay si possono inviare soldi agli amici, ad esempio, per dividere il conto del ristorante.
La transazione avviene registrando nell’app una carta di credito o il proprio conto PayPal.
Passando ad Amazon invece, la società di Seattle ha annunciato che i suoi clienti potranno presto pagare anche le bollette attraverso la sua piattaforma, online oppure ordinandolo a voce all’assistente virtuale Alexa.
Ma perché allora questa esplosione di offerte da parte dei Big Tech che toccano direttamente il portafoglio dei consumatori?
L’Economist (settimanale inglese di informazione politico-economica) lo spiega in modo semplice e diretto, “i giganti della Silicon Valley vogliono i vostri dati, non i vostri soldi!”.
Google & Co. non ambiscono a diventare loro stessi delle banche o delle aziende emittenti sistemi di pagamento, anche perché dovrebbero rispettare molte più regole in cambio di margini di profitto molto inferiori alle loro abitudini.
Il loro scopo è quello di conoscere, ancora più da vicino, tutte le abitudini di spesa dei loro utenti, per profilarli meglio e chiuderli ancora di più nel loro ecosistema promuovendo prodotti.
Anche in Cina, Alibaba con Alipay e Tencent con WeChat offrono una gamma di servizi finanziari che permette ai loro utenti di fare praticamente tutto con lo smartphone, dal pagare qualsiasi acquisto a ricevere consulenza finanziaria.
Ma il successo del modello cinese è difficilmente replicabile in occidente, dove la regolamentazione è diversa e più rigorosa, e i consumatori hanno storicamente accesso a più alternative e sono più critici nelle loro scelte.
Il successo delle iniziative finanziarie marchiate FAAG dipenderà da quanto queste aziende saranno capaci di convincere il pubblico ad affidare loro anche il portafoglio, oltre all’inquietante conoscenza di interessi, gusti, preferenze e opinioni.
Un’impresa, a mio parere, non facile.
Concludo ricordandoti l’appuntamento di Mercoledì sera al Podere la Torre di Schio con la serata Azimut dedicata al tema degli investimenti nell’economia reale.
Buon lunedì e buona prima settimana di Dicembre!
Un caro saluto.
Davide